Alla ricerca delle proprie tracce, raccontando una famiglia borghese ed ebrea, l’autrice stende una versione dell’Italia nella prima metà del Novecento.
Potrebbe essere interessante leggere questo libro alla luce di un vecchio dibattito sulla storia d’Italia, che opponeva due interpretazioni - nell’epoca in cui i dibattiti storici opponevano grandi interpretazioni - del fascismo: se il fascismo fosse stato continuità o rottura del vecchio regime liberale. Sebbene infatti La mia versione dei fatti sia stato concepito in due volumi (peraltro scritti in due lingue e in periodi diversi, a coprire due momenti storici scissi nel mezzo dalla disastrosa guerra), questo ritratto di una famiglia italiana borghese ed ebrea, ma prima e più borghese che ebrea, potrebbe essere scandito in tre tempi: dagli inizi del secolo alla Grande Guerra, il fascismo e l’esilio, il breve ritorno nell’Italia anni Cinquanta. Sicché il terzo periodo - quello in cui la coraggiosa protagonista, vedova e con molti anni d’esilio, esperta di rovesci e di rinascite, torna dall’America a vedere che se ne è fatto dell’Italia e della sua città, Firenze - può funzionare da pietra di paragone per gli altri due: cosa modificò e cosa lasciò immune la lunga diseducazione del fascismo? Come emerge dai ricordi di Carla Coen, sposata Pekelis - prima bambina e giovane in Italia, poi madre di famiglia in fuga dal fascismo tra Parigi e Lisbona, poi capofamiglia in America e infine tornata straniera in Italia dopo la guerra a cercare le proprie tracce - la storia della famiglia è il correre e il rincorrersi di esperienze forti, capaci di fare vacillare, mai di abbattere. Fortune virtù e drammi, pubblici e privati, sempre però portatori di accresciuta consapevolezza di sé, del proprio ruolo, del proprio compito e del proprio diritto. L’educazione di un’élite borghese, a cui il destino di essere una borghesia ebrea, fornì in dote il distacco necessario per potere, in trasparenza e senza sussiego, giudicare naturalmente cosa fu tolto all’Italia dalla storia del secolo, cosa aveva e gli restò, cosa non ebbe mai. Insomma: perché mancò appunto dell’educazione delle élites.
1996
La nuova diagonale n. 13
352 pagine
EAN 9788838911828
Carla Pekelis (1907-1985) nacque a Roma da Dante Coen e Ada Ascoli, ebrei di famiglia di gioiellieri professionisti e proprietari. A Roma finì le scuole e nel 1924 si trasferì a Firenze dove il padre aveva rilevato la più nota gioielleria della città. Nel 1931 sposò Alessandro Pekelis, ebreo di Odessa, fuggito dalla Russia nel 1917, avvocato e professore di diritto, e poi negli Stati Uniti dirigente del partito laburista sionista. Con le leggi razziali, la famiglia Pekelis lasciò l'Italia, per Parigi prima, poi, all'avanzare del nazismo, per Lisbona. Agli inizi del 1941, infine, i Pekelis raggiunsero New York. Nel 1946, Carla restò vedova e iniziò a mantenere la numerosa famiglia insegnando lingua e letteratura italiana in una università privata. Oltre ai due diari raccolti nella Mia versione dei fatti, scrisse diverse novelle e testi di linguistica.
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