Un giudice inflessibile: un volto di «un vecchio signore inumano e intrepido», modellato dalla vita, cioè dal destino. E Stevenson racconta dello scontro tragico tra un grande padre, e un figlio oppresso e a lui eguale; nella Scozia tra Sette e Ottocento; in un'epoca, cioè, in cui non era affatto ovvio che per crescere occorresse uccidere l'immagine del padre.
Nel 1950, commemorando il centenario della nascita di Robert Louis Stevenson, mentre la ricorrenza passava nella disattenzione delle lettere italiane, Silvio D'Arzo si diceva convinto che Stevenson sarebbe ritornato trionfante, non poteva non ritornare, perché, scriveva: «noi possiamo anche non amare noi stessi, ma non potremo mai non amare la nostra fanciullezza e tutto ciò che la fanciullezza vuol dire». Facile la profezia di D'Arzo (morto lui stesso non lontano dalla fanciullezza dopo aver scritto uno dei più bei racconti italiani, e fogli di un quaderno di letture di inesausto incanto), oggi Stevenson è tornato, eppure ancora, giunti al centenario della morte, si stenta - in Italia almeno - ad allegarlo automaticamente nella schiera dei grandi. Nell'epoca del racconto giallo (che lo scozzese considerava un troppo asettico artificio) e dello schermo, la sua forza romanzesca urta il buonsenso: senza far appello ad alcun manierismo neogotico, la sua pagina, passata di una patina di antico come se sempre fosse un vecchio manoscritto ritrovato, incatena oltre ogni senso critico l'intelletto più disincantato. Convince a credenze cui non si è più abituati: «Il bene e il male sono illusioni: nella vita c'è solo il destino»; « Alcuni posti parlano con voce distinta. Certi giardini stillanti reclamano a tutti i costi un delitto; certe vecchie case esigono di essere popolate da fantasmi; certe coste sono messe da parte per i naufraghi. Sembrano ancora in attesa della leggenda giusta. La stessa cosa avviene coi nomi e i volti». Weir di Hermiston, che Stevenson considerava il suo capolavoro, è l'ultima opera alla quale lavorò, lasciandola incompiuta, fino all'ultimo giorno di vita. Nacque dal ritratto, ammirato in gioventù, di un giudice inflessibile: un volto di «un vecchio signore inumano e intrepido», modellato dalla vita, cioè dal destino. E racconta dello scontro tragico tra un grande padre, e un figlio oppresso e a lui eguale; nella Scozia tra Sette e Ottocento; in un'epoca, cioè, in cui non era affatto ovvio che per crescere occorresse uccidere l'immagine del padre.
1 Gennaio 1994
La memoria n. 306
220 pagine
EAN 9788838910197
Robert Louis Stevenson (Edimburgo, 1850 - Vailima, 1894) visse gli ultimi anni, dal 1889 al 1894, anno della sua morte, nelle isole dei Mari del Sud, soggiornando qualche mese nelle Hawaii, dove ebbe modo di incontrarsi con l’opera umanitaria di Padre Damiano. Terminò questa biografia del più anziano amico Fleeming Jenkin nel 1888. Jenkin, viaggiatore, ingegnere e professore nei corsi universitari frequentati svogliatamente da Stevenson, nato nel 1833, era morto tre anni prima, nel 1885. Di Stevenson, questa casa editrice ha pubblicato: Il diamante del Rajà (1979), L'isola del romanzo (1987), Weir di Hermiston (1994), Il riflusso della Marea (1994), Lettera al dottor Hyde (1994).
Chi ha consultato la pagina di questo libro ha guardato anche: