Dio di che religione è? Capovolgendo il Pascal ?Della necessità della scommessa? mi verrebbe da pensare a proposito de ?Il cammello e la corda? di Domenico Seminerio: ?Felicità dell?uomo senza Dio. Miseria dell?uomo con Dio?. O almeno del Dio costruito dagli uomini. Ma sarebbe un modo troppo semplice di risolvere i grumi di un romanzo straordinariamente attuale, straordinariamente moderno. Il cui tema portante non è ? e ci permettiamo di dissentire dai risvolti di copertina che sono a volte un po? depistanti e un po? sibillini ? la tentazione, quanto lo scontro tra due concezioni, di due modi d?essere e di considerare il mondo: la tolleranza da un lato e l?intransigenza dall?altro. Ne offre una chiave di lettura già il titolo stesso: la trascrizione di una eta per una ipsilon da parte dei trascrittori aramaici del Vangelo per cui la ?corda? divenne il ?cammello? della celebre parabola. Un errore perpetuato - un felix error ? e accettato dalla Chiesa. Il titolo è perciò una dichiarazione di poetica: l?uso politico della religione, strumento per eccellenza di controllo delle masse, cieco meccanismo di oppressione. Seminerio ha la presunzione felicissima di affrontare con questa prontezza un argomento filosofico con la capacità di un narratore raffinato soprattutto grazie ad un controllo della prosa - sorretta dal discorso indiretto libero (peculiarità anche del primo romanzo)- che ha davvero pochi eguali. ?Il cammello e la corda? è un apologo in forma di romanzo dal ritmo incalzante, perfetto, che narra due storie parallele: quella odierna di padre Salvatore Sotera a Monteselva, un ?paesino sperduto all?interno della Sicilia in provincia di una fantomatica Castelnassa?; dall?altra quella del nobile romano Atenodoro, a Triokala, ovvero quella stessa Monteselva catapultata in una Sicilia lontanissima nel tempo: il quarto secolo dopo Cristo, in un periodo compreso tra l?editto di Milano e quello di Tessalonica (313-383 d.C.), al tempo in cui il Cristianesimo diventa l?unica religione dell?Impero. Salvatore Sotero - cioè Salvatore ?Salvatore? come rivela dal greco il suo cognome, particolare che si rivelerà fondamentale: nomina omina, ?i nomi sono destini?, appunto - è un parroco quarantenne rigoroso e allineato all?ortodossia, alto e snello; non certo bello - a suo stesso dire - considerato ?un gran naso un poco storto, manacce grandi e grosse, un?andatura ballonzolante...? Padre Salvatore negli atteggiamenti ricorda, ma in modo involontario don Abbondio; certo: non proprio un vaso di terracotta in mezzo a quelli di ferro come il personaggio manzoniano, ma come lui pacione, bravo a suggerire ai suoi parrocchiani sempre ?calma, mitezza, sottomissione, l?accettazione delle antiche consuetudini, della mentalità?, compresa quella della pax sociale imposta da don Calogero, il mafioso di turno, uno che ci credeva veramente visto che si confessava e si ?faceva la comunione con regolarità?, pur sapendo ben distinguere tra l?anima, la religione e gli affari. Un po? don Abbondio dunque padre Salvatore, non solo per la sua ciarliera perpetua Filomena ma anche per quell?infarinatura disordinata di conoscenze che se da un lato - nell?incipit del romanzo - gli fa disprezzare un autore come Faulkner (di cui non ricorda il nome ma solo il titolo di un romanzo per lui illeggibile, ?Santuario?) dall?altro - quasi un evocazione della celeberrima ?Carneade chi era costui? - lo costringe ad interrogare i libri di retorica per un suo ricercato concetto? Ma questa immagine fin troppo severa di padre Salvatore in realtà si incrina davanti alla sua grande passione, la caccia, e ad alcune simpatiche singolarità: è proprio strano che un parroco chiami il proprio cane Apollo, col nome cioè di una divinità pagana; o che si lasci turbare dalla giovane orfana e nuova co-perpetua Minuzza: sensuale quanto discinta, allusivamente disponibile e disposta alla reciproca consolazione, anche se un ?Pater un Ave e un Gloria? servono - ancora - a tenerla a distanza. Durante un mattino come tanti la caccia di padre Salvatore si conclude con una preda inaspettata: la scoperta in una grotta nascosta, quasi inaccessibile, di un antico e meraviglioso complesso statuario che riproduce una sorta di scultoreo kamasutra. Narrativamente è l?episodio che permette l?avvio del romanzo nel romanzo, ovvero la vicenda di Atenodoro, ultimo discendente di una stirpe di sacerdoti di Venere ?supremo piacere degli uomini e degli dei?, ora al bando a causa dell?editto che impone la cancellazione di tutti i culti pagani e l?imposizione del Cristianesimo. Nella mentalità di Atenodoro che vive felice la sua tarda maturità, ritirato nella sua villa, è impensabile che la speranza, cardine della nuova fede, cancelli la liceità e la naturalità del piacere fisico e distrugga la religione dei padri. Non riesce a capacitarsi della condanna dei sacri riti di Venere; di una religione che predica la castità e l?astinenza; del piacere che precluderebbe addirittura l?aldilà; insomma non comprende il biasimo degli ?istinti primigeni? trasformati dalla nuova fede nelle ?lusinghe della carne?. Atenodoro percepisce Eros come entità cosmica primordiale e come principio animatore dell?universo in sintonia con la cultura classica. E? perciò costretto a sotterrare le sue ventiquattro meravigliose statue erotiche, vero e proprio archetipo della bellezza, per sfuggire alla rabbia iconoclasta di Giustino, diacono di Triokala, intransigente e arrogante difensore della ?religione dell?ebreuccio?. Per non contaminare quella bellezza ? anzi, l?eidos della bellezza - egli distrugge il suo giardino e per salvare la sua fede sopprime l?apparenza della fede ordendo un piano complesso ma vincente per celare per sempre le statue. Siamo, nel cuore della narrazione, davanti ad una lunga serie di contrasti: dell?ipocrisia sulla verità, del dogma contro la ragione, della natura contro la civiltà; contrasti che si riverberano, in un salto temporale, anche in padre Salvatore, incerto se distruggere definitivamente le statue o preservarle ancora; se cedere al bisogno di protezione di Minuzza o respingerla. Sulle citazioni sparse per il romanzo, per il significato che acquista, valga quella dal ?Pervigilium Veneris? (La veglia di Venere) capolavoro della poesia latina del III secolo d.C., un inno da cantare da un coro di fanciulle alla vigilia della festa notturna in onore di Venere Iblea, alle falde dell?Etna, al ridestarsi della natura al ritorno della primavera e contenuto nella ?Anthologia Latina?, una raccolta di componimenti poetici di età imperiale. Quanto più si chiariscono le scelte di Atenodoro sempre più osteggiato da Giustino; quanto più s?improntano le sue scelte ad una ratio illuminata tanto più si fa tortuosa e difficile la via di padre Salvatore: le certezze di una fede imposta più dai manuali di teologia che dal cuore, vacillano; le radici biologiche prendono il sopravvento mettendolo davanti non solo ad alcune scelte radicali ma anche di fronte alla necessità di una irrinunciabile resurrezione personale: omen nomen. In un contrappunto narrativo di grande efficacia assistiamo così sia alla caduta/rinascita di Atenodoro che a quella di padre Salvatore in un finale che offre spunto a una serie di riflessioni e di avvenimenti per i quali non basteranno certo un Pater un Ave e un Gloria? Consentiteci a questo punto una divagazione: il sospetto di leggere in Atenodoro una proiezione dello stesso Seminerio è ricco di troppi indizi: la cultura classica sfoggiata in maniera antierudita; la saggezza di uomo maturo non sottomesso - religo/relego hanno la stessa radice ? di uno spirito non indottrinato; di esperto archeologo; di raffinato conoscitore della letteratura latina: e le citazioni di Catullo - cui Seminerio-Atenodoro si rivolge confidenzialmente solo per nome - sono tracce troppo forti. E la prassi intellettuale di Domenico Seminerio, volterriano di ferro, pare darcene conferma sempre più?
Dio di che religione è? Capovolgendo il Pascal ?Della necessità della scommessa? mi verrebbe da pensare a proposito de ?Il cammello e la corda? di Domenico Seminerio: ?Felicità dell?uomo senza Dio. Miseria dell?uomo con Dio?. O almeno del Dio costruito dagli uomini. Ma sarebbe un modo troppo semplice di risolvere i grumi di un romanzo straordinariamente attuale, straordinariamente moderno. Il cui tema portante non è ? e ci permettiamo di dissentire dai risvolti di copertina che sono a volte un po? depistanti e un po? sibillini ? la tentazione, quanto lo scontro tra due concezioni, di due modi d?essere e di considerare il mondo: la tolleranza da un lato e l?intransigenza dall?altro. Ne offre una chiave di lettura già il titolo stesso: la trascrizione di una eta per una ipsilon da parte dei trascrittori aramaici del Vangelo per cui la ?corda? divenne il ?cammello? della celebre parabola. Un errore perpetuato - un felix error ? e accettato dalla Chiesa. Il titolo è perciò una dichiarazione di poetica: l?uso politico della religione, strumento per eccellenza di controllo delle masse, cieco meccanismo di oppressione. Seminerio ha la presunzione felicissima di affrontare con questa prontezza un argomento filosofico con la capacità di un narratore raffinato soprattutto grazie ad un controllo della prosa - sorretta dal discorso indiretto libero (peculiarità anche del primo romanzo)- che ha davvero pochi eguali. ?Il cammello e la corda? è un apologo in forma di romanzo dal ritmo incalzante, perfetto, che narra due storie parallele: quella odierna di padre Salvatore Sotera a Monteselva, un ?paesino sperduto all?interno della Sicilia in provincia di una fantomatica Castelnassa?; dall?altra quella del nobile romano Atenodoro, a Triokala, ovvero quella stessa Monteselva catapultata in una Sicilia lontanissima nel tempo: il quarto secolo dopo Cristo, in un periodo compreso tra l?editto di Milano e quello di Tessalonica (313-383 d.C.), al tempo in cui il Cristianesimo diventa l?unica religione dell?Impero. Salvatore Sotero - cioè Salvatore ?Salvatore? come rivela dal greco il suo cognome, particolare che si rivelerà fondamentale: nomina omina, ?i nomi sono destini?, appunto - è un parroco quarantenne rigoroso e allineato all?ortodossia, alto e snello; non certo bello - a suo stesso dire - considerato ?un gran naso un poco storto, manacce grandi e grosse, un?andatura ballonzolante...? Padre Salvatore negli atteggiamenti ricorda, ma in modo involontario don Abbondio; certo: non proprio un vaso di terracotta in mezzo a quelli di ferro come il personaggio manzoniano, ma come lui pacione, bravo a suggerire ai suoi parrocchiani sempre ?calma, mitezza, sottomissione, l?accettazione delle antiche consuetudini, della mentalità?, compresa quella della pax sociale imposta da don Calogero, il mafioso di turno, uno che ci credeva veramente visto che si confessava e si ?faceva la comunione con regolarità?, pur sapendo ben distinguere tra l?anima, la religione e gli affari. Un po? don Abbondio dunque padre Salvatore, non solo per la sua ciarliera perpetua Filomena ma anche per quell?infarinatura disordinata di conoscenze che se da un lato - nell?incipit del romanzo - gli fa disprezzare un autore come Faulkner (di cui non ricorda il nome ma solo il titolo di un romanzo per lui illeggibile, ?Santuario?) dall?altro - quasi un evocazione della celeberrima ?Carneade chi era costui? - lo costringe ad interrogare i libri di retorica per un suo ricercato concetto? Ma questa immagine fin troppo severa di padre Salvatore in realtà si incrina davanti alla sua grande passione, la caccia, e ad alcune simpatiche singolarità: è proprio strano che un parroco chiami il proprio cane Apollo, col nome cioè di una divinità pagana; o che si lasci turbare dalla giovane orfana e nuova co-perpetua Minuzza: sensuale quanto discinta, allusivamente disponibile e disposta alla reciproca consolazione, anche se un ?Pater un Ave e un Gloria? servono - ancora - a tenerla a distanza. Durante un mattino come tanti la caccia di padre Salvatore si conclude con una preda inaspettata: la scoperta in una grotta nascosta, quasi inaccessibile, di un antico e meraviglioso complesso statuario che riproduce una sorta di scultoreo kamasutra. Narrativamente è l?episodio che permette l?avvio del romanzo nel romanzo, ovvero la vicenda di Atenodoro, ultimo discendente di una stirpe di sacerdoti di Venere ?supremo piacere degli uomini e degli dei?, ora al bando a causa dell?editto che impone la cancellazione di tutti i culti pagani e l?imposizione del Cristianesimo. Nella mentalità di Atenodoro che vive felice la sua tarda maturità, ritirato nella sua villa, è impensabile che la speranza, cardine della nuova fede, cancelli la liceità e la naturalità del piacere fisico e distrugga la religione dei padri. Non riesce a capacitarsi della condanna dei sacri riti di Venere; di una religione che predica la castità e l?astinenza; del piacere che precluderebbe addirittura l?aldilà; insomma non comprende il biasimo degli ?istinti primigeni? trasformati dalla nuova fede nelle ?lusinghe della carne?. Atenodoro percepisce Eros come entità cosmica primordiale e come principio animatore dell?universo in sintonia con la cultura classica. E? perciò costretto a sotterrare le sue ventiquattro meravigliose statue erotiche, vero e proprio archetipo della bellezza, per sfuggire alla rabbia iconoclasta di Giustino, diacono di Triokala, intransigente e arrogante difensore della ?religione dell?ebreuccio?. Per non contaminare quella bellezza ? anzi, l?eidos della bellezza - egli distrugge il suo giardino e per salvare la sua fede sopprime l?apparenza della fede ordendo un piano complesso ma vincente per celare per sempre le statue. Siamo, nel cuore della narrazione, davanti ad una lunga serie di contrasti: dell?ipocrisia sulla verità, del dogma contro la ragione, della natura contro la civiltà; contrasti che si riverberano, in un salto temporale, anche in padre Salvatore, incerto se distruggere definitivamente le statue o preservarle ancora; se cedere al bisogno di protezione di Minuzza o respingerla. Sulle citazioni sparse per il romanzo, per il significato che acquista, valga quella dal ?Pervigilium Veneris? (La veglia di Venere) capolavoro della poesia latina del III secolo d.C., un inno da cantare da un coro di fanciulle alla vigilia della festa notturna in onore di Venere Iblea, alle falde dell?Etna, al ridestarsi della natura al ritorno della primavera e contenuto nella ?Anthologia Latina?, una raccolta di componimenti poetici di età imperiale. Quanto più si chiariscono le scelte di Atenodoro sempre più osteggiato da Giustino; quanto più s?improntano le sue scelte ad una ratio illuminata tanto più si fa tortuosa e difficile la via di padre Salvatore: le certezze di una fede imposta più dai manuali di teologia che dal cuore, vacillano; le radici biologiche prendono il sopravvento mettendolo davanti non solo ad alcune scelte radicali ma anche di fronte alla necessità di una irrinunciabile resurrezione personale: omen nomen. In un contrappunto narrativo di grande efficacia assistiamo così sia alla caduta/rinascita di Atenodoro che a quella di padre Salvatore in un finale che offre spunto a una serie di riflessioni e di avvenimenti per i quali non basteranno certo un Pater un Ave e un Gloria? Consentiteci a questo punto una divagazione: il sospetto di leggere in Atenodoro una proiezione dello stesso Seminerio è ricco di troppi indizi: la cultura classica sfoggiata in maniera antierudita; la saggezza di uomo maturo non sottomesso - religo/relego hanno la stessa radice ? di uno spirito non indottrinato; di esperto archeologo; di raffinato conoscitore della letteratura latina: e le citazioni di Catullo - cui Seminerio-Atenodoro si rivolge confidenzialmente solo per nome - sono tracce troppo forti. E la prassi intellettuale di Domenico Seminerio, volterriano di ferro, pare darcene conferma sempre più?
1 Gennaio 2006
La memoria n. 675
334 pagine
EAN 9788838921100
Formato e-book: epub
Protezione e-book: acs4