1. In questo libro il teatro è in primissimo piano, come forse mai era successo prima. Come mai ha sentito solo ora l’esigenza di fare un omaggio alla più grande passione della sua vita?
Non credo sia stato il teatro la più grande passione della mia vita.
Però l’ho amato molto e l’ho continuato a seguire anche quando ho smesso di fare le mie regie. Nella mia scrittura è stato sempre presente, l’esperienza teatrale ha sicuramente influito e plasmato il mio modo di narrare. Certo in quest’ultimo romanzo ho esplicitato un mondo che ho vissuto e che mi porto dentro su sollecitazione di mia moglie Rosetta, che un giorno mi ha domandato: “ma perché non scrivi qualcosa di Montalbano in teatro?”.
2. È esistito un “metodo Camilleri”? Pur non arrivando all’estremismo di Carmelo Catalanotti, con quali parametri il Camilleri regista sottoponeva a provino gli aspiranti attori?
Non gli aspiranti attori, ma gli aspiranti registi. Io ero professore di regia, quindi non facevo provini, ma lunghi colloqui con i ragazzi che volevano dirigere film o teatro che fosse. Non mi interessava tanto sondare la loro cultura quanto cercare di capirne il carattere, l’intelligenza, la capacità di rapportarsi con gli altri, le intuizioni dopo la lettura comune di un testo e l’idea generale di messinscena di un classico.
3. Le citazioni delle liriche inserite nel testo sono scaturite spontanee, di cuore, sgorgate dal testo stesso in fieri, oppure si è trattato di un’operazione più “di ricerca”, a supporto della tensione emotiva del brano?
Montalbano ha una sorta di pudore, ed io con lui, nel raccontare l’amore. Figuriamoci la passione. Ho sempre pensato che la poesia possa raggiungere nel minor tempo possibile l’apice dell’emozione, così come appunto la passione. Raccontare come l’amore entra nella vita di un signore di una certa età come Montalbano, esprimere un sentimento di cui ha quasi vergogna non era semplice. I versi di una poesia mi sono parsi il mezzo più appropriato. Ma comunque non è stata una mia idea.
4. Lei ha sempre avuto il gusto della citazione colta, una sorta di dialogo privilegiato con chi era in grado di individuarla. In questo romanzo, invece, le citazioni poetiche sono esplicitate nella Nota finale. Come mai?
Come lei noterà, non tutte le poesie sono esplicitate con la firma dell’autore nella nota. E questo è un piccolo giallo.
5. È abbastanza evidente negli ultimi romanzi pubblicati un’evoluzione del “vigatese”, a cosa è dovuta?
È un’evoluzione naturale della mia lingua che ho potuto attuare solo grazie ai miei lettori che mi hanno seguito in questa sperimentazione.
6. Soprattutto nelle storie di Montalbano, lei è sempre stato attento alle tematiche sociali attuali.
In quest’ultima lei affronta drammi come la disoccupazione giovanile e l’usura. Sono scelte soltanto funzionali alla trama della storia o vengono dettate anche da situazioni del momento?
Quando ho iniziato a scrivere questo romanzo, pensavo addirittura di ambientarlo nei primi anni ’90. Leggevo quindi notizie di quel periodo e mi sono reso conto che allora, al sud, il problema della disoccupazione giovanile era uguale a quello di oggi. Possibile che in trent’anni non sia stato fatto nulla? Possibile che il problema di questo paese siano i migranti che arrivano dalla Siria e non i nostri ragazzi che sono costretti a emigrare e non a migrare?
7. Montalbano è “alla vigilia o squasi” della pensione (anche se in realtà dovrebbe essere parecchio più avanti...), e in questo romanzo l’evoluzione del personaggio subisce un’improvvisa accelerazione, in particolare per il progredire delle “vicchiaglie”. Non le sembra un po’ azzardato averlo dipinto in uno stato di “esuberanza sentimentale” forse un po’ troppo spinto?
Azzardato assolutamente no, credo che Montalbano sia il primo a trovarsi a “disagio” in questa passione. Ma succede, capita. Ed è difficile rinunciare, appunto, agli “ultimi fuochi”.
8. In un recente articolo sulla Lettura, Antonio D’Orrico ha scritto a proposito de Il metodo Catalanotti: “In questo spettacolare, sorprendente romanzo, Camilleri si riprende Montalbano, lo rimette in gioco, lo inventa daccapo. Una sfida temeraria che il grande scrittore lancia ai suoi lettori, ai suoi personaggi, ma soprattutto a sé stesso” cosa ne pensa di questa analisi del critico del Corriere della Sera?
Mi ha molto colpito il pezzo di D’Orrico per la sua acutezza. Durante la scrittura mi sono ritrovato più volte ad avere la consapevolezza di voler riappropriarmi del mio personaggio. Potevo farlo solo attraverso un’energia sorprendente e nuova.
9. Nel corso degli anni alcuni lettori hanno contestato qualche atteggiamento del commissario: “Questo non è il ‘mio’ Montalbano, non lo riconosco e non mi piace”. Ma secondo lei, quanto un personaggio appartiene all’Autore, e quanto ai lettori?
Il personaggio lo scrive l’autore, il lettore se lo può interpretare come vuole, ma la paternità resta sempre di chi l’ha concepito, scritto e inventato.
10. Com’è nato Montalbano? Aveva già in mente un personaggio seriale?
Dopo aver scritto “Il birraio di Preston”, con la sua struttura apparentemente “disordinata”, volevo verificare se riuscivo a scrivere all’interno della “gabbia” del giallo. Scrissi così “La forma dell’acqua”. Il secondo romanzo “Il cane di terracotta”, venne fuori perché volevo “completare” il personaggio del commissario, che nel primo era più una “funzione” che un “personaggio”; e per me era finita lì. Però il successo che ebbero i 2 romanzi portò Elvira Sellerio a spingere perché ne continuassi a scrivere, e il resto è storia.