Il rapporto tra me e i musei è stato – fino a questo momento – una partita in tre tempi: in tutte e tre le frazioni di gioco la questione dei figli era fondamentale. Nel primo tempo, il figlio della situazione ero io; nel secondo, non lo ero più; nel terzo tempo, io sono il genitore. La mia idea di che cosa siano i musei, e a che cosa servano, è cambiata di conseguenza.
I musei sono un luogo dove ci si istruisce, ed è nell’infanzia che ha luogo buona parte dell’istruzione che riceviamo: perciò è normale che i musei stiano in relazione con l’esser figli o l’avere figli. Questo in teoria. In pratica, durante la mia infanzia, i musei erano luoghi di tortura. La cosa era reciproca: i miei genitori mi torturavano portandomi ai musei, ed io li torturavo a mia volta annoiandomi in maniera irreversibile, inconsolabile. Questo di solito succedeva durante i viaggi all’estero, dato che a Hong Kong – dove vivevamo all’epoca – i musei scarseggiavano: uno degli aspetti fantastici di Hong Kong, pensavo allora. Quando si era in vacanza, pertanto, mi trascinavano – a volte letteralmente – in giro per i grandi musei del pianeta. Uno di questi fu il Topkapi di Istanbul; un altro il National Palace Museum di Taipei, con i tesori che quelli del Kuomintang si erano portati appresso nell’esilio taiwanese. Oggi penso che sia stato straordinario aver visitato quei posti, e rendo omaggio ai miei genitori per avermici portato. All’epoca, tuttavia, per un preadolescente i cui interessi erano la fantascienza, il calcio e gli scacchi, i musei equivalevano ai gironi più bassi dell’Inferno.
Le cose cambiarono soltanto con l’anno sabbatico prima dell’università. Passai qualche mese a vagabondare per l’Europa grazie all’Interrail, e fu allora, a 19 anni, che finalmente presi il «morbo». O forse ne ero già portatore inconsapevole. Andarsene «per quadri» era anche una questione pratica: ti dava qualche cosa da fare. Appena arrivato in una nuova città, la prima cosa era trovare l’ostello della gioventù, la seconda recarsi al museo principale. Perché il museo costituiva un fulcro, forniva una motivazione a quel ritrovarsi in una città straniera. Vidi una grande retrospettiva di Picasso a Copenaghen; a Oslo vidi ilGridodi Munch, che mi fece un effetto fortissimo perché mi ci imbattei inaspettatamente, del tutto impreparato; a Helsinki vidi il monumento a Sibelius di Eila Hiltunen; girai tutto il Museo Archeologico Nazionale di Atene; vidi l’autoritratto di Dürer nella Alte Pinakothek di Monaco di Baviera.
Quel pomeriggio a Monaco fu pieno di sorprese. Uscii dal museo, trovai una birreria all’aperto e lì vidi qualcosa di più straordinario e misterioso delle opere d’arte appena osservate. C’erano quattro ragazzi della mia età, seduti intorno a un tavolino, di fronte ad alcuni litri di birra. Ed ecco succedere l’incredibile: i ragazzi diedero un’occhiata ai rispettivi orologi, si guardarono l’un l’altro, annuirono, si alzarono e se ne andarono,senza finire di bere. Ciascuno di loro lasciò lì circa un terzo di un boccale di birra chiara da un litro. Una cosa simile io non l’avevo mai vista, e non avevo idea che fosse possibile. Nessuno dei miei amici, nessuna persona a me nota, aveva mai omesso di trincare fino in fondo una bevanda. Evidentemente il mondo era un luogo più grande e bizzarro di quanto avessi immaginato.
Il culmine di quel giro per l’Europa, dal punto di vista museale, fu il Prado. Era l’ultima tratta del mio biglietto Interrail trimestrale; poi da Madrid sarei andato dritto fino a Calais per prendere il traghetto del ritorno a casa. Inoltre il Prado era – e lo è tuttora – l’unico museo che rappresenta incontestabilmente l’attrazione Numero Uno di una grande città. Il Louvre sta senz’altro nella parte alta della classifica delle ragioni per visitare Parigi, così come il British Museum per Londra e il Met per New York, ma l’unico museo a godere dello status incontrastato di maggior vanto cittadino è il Prado. Durante quei mesi ero cambiato a tal punto che adesso non vedevo l’ora di andarci: avevo fatto il viaggio solo per visitare il museo. Il John ragazzino (per non parlare dei miei genitori) sarebbe rimasto sbalordito.
Le due cose che ricordo più vividamente di quella prima visita al Prado sono: in primo luogo un forte senso della singolarità culturale della Spagna; in secondo luogo la potente sensazione che il «cuore» della collezione avesse a che fare con la pazzia, il delirio, il sesso e la morte. Avevo 19 anni, perciò pensai: grandioso! Chiunque nutra il più pallido interesse per le arti figurative avrà visto qualche riproduzione dei grandi capolavori di Hieronymus Bosch,Il carro del fienoeIl Giardino delle delizie. Io avevo consultato una guida, perciò entro certi limiti mi ero già imbattuto in quei dipinti. La loro realtà, tuttavia, fu spaventosamente più violenta di quanto mi aspettassi.
Da teenager, quale che sia l’intensità delle tue ossessioni, di solito sei cosciente di star provando «come ti stanno addosso» determinate idee e atteggiamenti; di stare tracciando degli schizzi di quell’Io che potresti decidere di essere. Il tuo relazionarti al mondo che si trova fuori dalla tua testa è anche un tentativo di conoscere te stesso, e pertanto può essere al contempo profondo e superficiale: c’è roba pesante che si può anche indossare alla leggera, spesso troppo alla leggera. Mi interessavano parecchio, il sesso, la pazzia, le tenebre, la magia, la morte; ma al tempo stesso più o meno sapevo di star giocando con delle idee. Bosch, invece, non giocava affatto. Quelle inspiegabili figure, piatte e terribili – bizzarre perfino quanto a paletta di colori, con quell’assurdo rosa delGiardino– non erano un gioco. Quel dipinto, oltretutto – e questo un diciannovenne lo capisce immediatamente – ribolle di sesso, pur essendo insistentemente, istericamente privo di sesso, dacché nel quadro sesso vero e proprio non se ne fa. Quei corpi nudi si trovano in ogni situazione estrema possibile e immaginabile, tranne quella lì. Il quadro è una raffigurazione dell’eccesso, dell’abbandono e del delirio, e allo stesso tempo dà l’opprimente sensazione di stare rispettando un tabù.
Nella stessa sala del Prado, adesso come allora, si trova ilTrionfo della mortedi Bruegel. Un altro quadro nel quale, anche se non capisci nulla di pittura – come me all’epoca – riconosci immediatamente un capolavoro. Adesso, rivisitando il museo 30 e più anni dopo, vedo in quel dipinto sia la testimonianza di un certo genere di guerra – medievale e religiosa – che l’anticipazione di un altro genere di conflitto, quello contemporaneo in cui la morte è una forza cieca, indiscriminata mietitrice soprattutto delle vite dei civili. Oggi vi riconosco qualcosa che è accaduto e che continua ad accadere. Ma durante quella prima visita pensai si trattasse di tutta un’altra fantasia, un’altra visione: del quadro che un monarca dispotico, Filippo II, poteva ben appendere alle pareti del suo palazzo. Era stato lo stesso Filippo ad acquistare i dipinti di Bosch e a costruire il nero, sinistro palazzo dell’Escorial appena fuori città. Il re pazzo nel suo pazzo castello con i suoi pazzi dipinti: e in un’altra sala c’era il ritratto della sua pazza moglie, Maria la Sanguinaria, con quella faccia tesa, che trasuda disapprovazione e irradia fanatismo: il museo pareva un gorgo di cultura, pazzia e identità nazionale.
L’artista che bramavo di vedere era Goya, della cui esistenza ero al corrente perché era uno dei preferiti di Hemingway, che era a sua volta uno dei miei preferiti. Ma non trovai quello che cercavo. Credo sia stato in parte a causa di un errore che è facile commettere: la disposizione delle sale, al Prado, prevede le «Pitture Nere» – nadir mentale e vertice artistico degli ultimi anni di Goya – al piano inferiore, dove, se stai facendo il giro delle sale spagnole in sequenza (e nel complesso è giusto fare così), le incontreraiprimadei dipinti degli inizi della sua carriera e della raggiunta maturità. Questo è sbagliato: occorre vedere le opere di Goya in successione cronologica, per ottenere il pieno impatto estetico. In occasione di questa seconda visita, sono stato ben attento a non ripetere l’errore.
A 19 anni mi beccai per prima cosa le Pitture Nere, e non riuscii a capire cosa ci fosse di così eccezionale. Dopo Bosch e Bruegel quell’orrore pareva di basso profilo, un che di meramente personale. AncheIl 3 maggio 1808, un capolavoro che al tempo stesso racconta ed anticipa così tanta storia, mi lasciò un po’ freddino. Avevo letto un sacco di libri sul Vietnam. Delle atrocità in guerra sapevo già: grazie tante, amico.
James Fenton osserva da qualche parte che non sei tu a giudicare la grande arte, è lei che giudica te. Ed io non passai l’esame-Goya. Facendo ritorno al Prado un terzo di secolo dopo, Goya non è cambiato né cresciuto, perché non ne aveva bisogno: io invece sì, e la forza e l’intensità della sua vita dipinta mi sembra senza pari. A fornirmi la chiave interpretativa della sua opera è stata un’osservazione fatta da un mio amico, per il quale Goya è «il Mozart che prosegue dritto nell’oscurità». Proprio così: il primo Goya ha la sublime grazia e la forza e la facilità e la fertilità immaginativa di Mozart. Nessuno dipinge ritratti femminili più espressivi di quelli di Goya, con la sua quadruplice combinazione di bellezza formale, realismo esteriore, realismo psicologico e capacità di dirti che cosa il pittore pensasse del proprio soggetto. Confrontare il ritratto di Carlo IV con quello di Ferdinando VII significa capire che significasse stare simpatici ovvero esser detestati da Goya; e al tempo stesso capire come fossero davvero i due sovrani. LaMaya vestidae quelladesnudasono passaggi obbligati, ma il quadrettoLa Duchessa di Alba e La Beataè ancora più carico di sensualità, buffo e sfrontato, con il corpo della duchessa innegabilmente sexy e pieno di energia.
Le Pitture Nere, viste secondo la giusta successione, parlano di una ritirata dalla vita pubblica, dal piacere e dal sesso e dalla compagnia e dal mondo. I loro titoli sono fuorvianti; è fuorviante il fatto stesso che abbiano dei titoli. Goya li ha dipinti per il proprio... il proprio... la parola giusta sfugge: per il proprio piacere? Per «uso personale»? Per distrarsi? Per tormentarsi? Si era appena trasferito a Madrid e viveva in una casa nota come laQuinta del Sordo, la Villa del Sordo. Le immagini dipinte alle pareti non avevano titoli, il che rafforza quella sensazione di malessere, di cose emerse dall’informe e dall’incubo: facce che gridano per paura o per rabbia o per rimprovero (l’immagine dell’orrore per un sordo); un mostro che si pasce di un bimbo, presumibilmente figlio suo; una folla di bruti in adorazione di una capra; streghe che volteggiano per aria. Essere stato un uomo di mondo come Goya, e aver amato le cose del mondo quanto lui; ed esser finito in questo posto, sordo e amareggiato e tradito e solo, eppure ancora capace di creazioni di questa profondità e vigore. Soltanto Picasso dà l’impressione di aver dipinto altrettanta vita di Goya: una vita da cima a fondo.
Perché mai avrei dovuto esser capace di capire tutto questo a 19 anni? Certe volte dico scherzando che l’arte andrebbe severamente vietata ai minori. Se non altro per avvertire che si tratta di qualcosa di pericoloso, che ci sono in ballo cose vere. E oltretutto mi sarebbero state risparmiate tante ore di noia, nell’infanzia. Come genitore, penso che per i figli le visite ai musei siano in larga misura uno spreco, che si rischi di inoculare loro una dose omeopatica di cultura e di passato che li renderà immuni a questo genere di interessi per il resto della loro vita. Quest’anno al Prado c’erano scolaresche delle elementari sedute sul pavimento, a sorbirsi conferenze sulGiardino delle deliziee sul3 di maggio: raffigurazioni di un orrore che è interamente adulto, a mio modo di vedere. Parrebbe un errore, uno spreco, un equivoco intorno all’arte. Io non farei una cosa simile ai miei figli. Per essere onesto: loro non me lo permetterebbero comunque. Allo stesso tempo, mi capita di domandarmi se, qualora non ci fossi stato trascinato durante l’infanzia, mi ci trascinerei adesso di mia spontanea volontà. Forse il discorso dell’arte, come la maggior parte dei discorsi, devi ascoltarlo per un po’, prima di prendervi parte direttamente. Perciò immagino di star dicendo che forse i miei genitori avevano ragione.
Il Prado
Paseo del Prado, Calle Ruiz de Alarcón 23, 28014 Madrid, Spagna
www.museodelprado.es