Racconta il tuo museo - I racconti degli scrittori

Aminatta Forna

The Broken Relationships Museum, Zagabria, Croazia

Il museo delle relazioni interrotte

Appena entro nella sala una coppia che si sta baciando si divide rapidamente. Lui va dall’altro lato della sala a osservare qualcosa, lei studia la descrizione sullo schermo che ha di fronte. Lui indossa una felpa col cappuccio, lei ha una borsa rossa a tracolla. Poiché sono giovanissimi, pare improbabile che abbiano una relazione extraconiugale, quindi forse li ho semplicemente messi in imbarazzo.
Dopo che se ne vanno, guardo il pezzo che avevano davanti. È uno scaldalegumi. «C’è un detto in Egitto secondo cui le fave sono più buone se servite calde», recita la targhetta. «La nostra relazione non si è mai riscaldata, ma l’amicizia è rimasta forte come le fave secche». La relazione, spiega ancora la targhetta, è durata dal 1990 al 1991, quindi ha coinciso con la guerra d’indipendenza qui in Croazia. Mi domando se le due cose siano connesse – se la guerra sia stato il motivo per cui quest’amore è affondato, o è stato rinnegato, o ha perso ogni manifestazione d’affetto.
Sul muro opposto c’è un set da barba regalato alla fine degli anni Ottanta da una ragazza di diciassette anni al suo amante, un uomo sposato. Quando lo ha donato al museo, l’uomo sposato ha scritto: «Spero che non mi ami più. Spero che non sappia di essere stata l’unica persona che ho mai amato».
Nel museo quasi tutto – una sala imbiancata dopo l’altra di tavoli luminosi, animali di pezza, cani di porcellana, vestiti di seta, cappotti cappelli libri, gioielli di plastica o vetro o ceramica, album fotografici, orologi ed elettrodomestici – ripete lo stesso messaggio: che l’amore finisce col dolore della perdita. L’amore finisce nella perdita, sempre. Soltanto lo scaldalegumi, ancora nella scatola originale, suggerisce che un amore irrealizzato possa produrre una certa quantità di felicità.
La prima volta mi sono imbattuta nel Museo delle Relazioni Interrotte mentre all’inizio dell’estate scorsa passeggiavo per Gradec, nella parte vecchia di Zagabria. Ero sulle tracce dei protagonisti del mio nuovo romanzo, The Hired Man, che si trasferiscono in questa città e un giorno pranzano all’Hotel Dubrovnik. Prima avevo immaginato la scena in cui assistono all’abbattimento degli alberi vecchi di cent’anni, basandomi su descrizioni scritte dell’albergo e di piazza Tomislav. Poi ero venuta a Zagabria con mio marito per camminare dentro la scena, per accertarne la verosimiglianza. La piazza e l’albergo erano vicini, più vicini di quanto avessi immaginato, ma da Zadar a Zagabria ci sono volute molte ore e quando siamo arrivati era troppo tardi per pranzare in albergo. Ci siamo messi invece a passeggiare per la città vecchia e in una traversa dalle parti di piazza San Marco ci siamo ritrovati davanti al museo.
Sulla destra appena si entra c’è un piccolo caffè, a sinistra un bookshop e la biglietteria. Di fronte si snoda una serie di sale ognuna delle quali porta un nome. Alcuni sono nomi elaborati, come quelli di purosangue da corsa – «Magnetismo della Distanza», «Capricci del Desiderio». Da «Rabbia e Furia» si può girare a destra e passare per «Correnti del Tempo» e «Riti di Passaggio», che girando porta a «Paradosso di Casa» (dove ho incontrato la giovane coppia). Andando invece dritto attraverso «Rabbia e Furia» si giunge a «Risonanza del Rimpianto», e all’ultima sala, «Col Sigillo della Storia». Questa parte della città vecchia si compone soprattutto di edifici municipali, e queste sale dai pavimenti in pietra sono probabilmente degli ex uffici. «Risonanza del Rimpianto», coi suoi muri di mattonelle bianche, sembra essere stata un orinatoio.
Accanto ad ognuno degli oggetti esposti c’è una targhetta che indica dove e quando ebbe luogo la relazione e che fornisce la spiegazione del dono da parte del donatore. Così, nella prima sala, sul muro al di sopra di un paio di stivali di pelle leggiamo: «Stivali da motociclista. 1996-2003. Zagabria, Croazia. Ho comprato questo paio di stivali per Ana prima del nostro viaggio a Parigi. In seguito li hanno indossati anche altre ragazze, ma sono rimasti sempre gli stivali di Ana».
Olinka Vistica e Dražen Grubišic, i fondatori del museo, un tempo erano una coppia di innamorati. In una calda estate di qualche anno fa si sono disamorati e hanno cominciato a dividersi le cose del loro appartamento. La loro era stata una separazione amichevole, ma non per questo meno triste, e così li hanno disposti insieme nelle varie stanze, classificando i ricordi comuni della loro relazione. Tazze, cd, posacenere, macinacaffè, padelle, tappeti, libri, spille, sciarpe: «anche l’oggetto più banale [aveva] una storia da raccontare». Erano quel tipo di oggetti che ogni amico benintenzionato, ogni manuale di autostima, ogni articolo di rivista che dia consigli su come riprendersi da una separazione, spingeva gente come loro a buttar via, rompere o dare in beneficenza – a liberarsene a tutti i costi. Quando l’amore finisce non ci devono essere oggetti a farcene ricordare. Ma i due non volevano far niente di tutto ciò. Si meravigliavano della mancanza di pietà che c’è nel gettare via le prove d’amore che possono aver regalato anni di gioia e molto piacere. Hanno deciso di curare una mostra itinerante di oggetti donati, in modo da offrire agli ex innamorati un’occasione di creare un rituale, un’alternativa al vandalismo proposto dai manuali – «un’occasione di superare un collasso emotivo per mezzo della creazione», come spiega ai nuovi arrivati la frase stampata al di sopra degli stivali di Ana. Da allora, la prima collezione di oggetti si è moltiplicata molte volte, trovando una sede permanente a Zagabria. Una mostra itinerante ha fatto il giro del mondo, raccogliendo oggetti come capitava, offrendo ai cuori infranti, traditi e disillusi di Buenos Aires e Berlino, di Città del Capo, Istanbul, Houston e perfino di Sleaford nel Lincolnshire una possibilità di condividere le storie racchiuse nelle loro cose.
Mi è sembrato, alla prima visita, che Olinka e Dražen avessero colpito nel segno: perché che cosa bisognerà mai fare di tutti quegli oggetti sui quali uno non sopporta più di posare lo sguardo? Le nostre case sono piene di feticci: cose che abbiamo ereditato, che ci sono state regalate, che abbiamo riportato da terre lontane, tutte impregnate di emozioni. Qui sullo scaffale dei libri c’è la teiera di latta azzurra di Timbouctu, sulla mensola del camino la pietra intagliata regalatami da un figlioccio che amo, in cucina sono appesi i collari di cani che sono morti. Tutti questi totem, trasportati in casa nel corso dell’esistenza, sono la prova fisica di aver vissuto: i nostri ricordi resi solidi.
Quando ci siamo conosciuti, mio marito mi ha regalato una medaglia raffigurante gli animali dell’oroscopo tibetano, che ha comprato nei suoi viaggi. Ho messo la medaglia in un portachiavi e me la sono portata in giro per il mondo; quando ho comprato la teiera in Mali l’avevo con me. In cambio gli ho dato un mio talismano, una figuretta di rame proveniente dalla Sierra Leone che fino ad oggi anche lui ha tenuto attaccata a un portachiavi. In The Hired Man un ragazzo, Duro, riceve un piccolo cuore di ceramica dal suo primo amore. Gli resta in tasca durante gli anni del servizio militare e anche quando lei si sposa con un altro. Quella di scambiarci testimonianze del nostro amore è una cosa che facciamo tutti.
Era inverno quando sono tornata a Zagabria. Gli spazi vuoti tra gli edifici ospitavano grandi mucchi di neve spalata dalle vie. Sono andata nella zona dei caffè all’aperto e dei venditori ambulanti. Mi sono ritrovata per caso con una prenotazione all’Hotel Dubrovnik, dove [i zagrebini] più anziani, col cappello e il cappotto col bavero di pelliccia, prendevano il caffè mattutino esattamente come dovevano aver fatto fin da quando l’albergo fu costruito nel 1929.
Dopo colazione mi sono diretta al museo con una pianta della città in mano, non sapendo se sarei stata in grado di ricordare la strada. La pianta mi ha fatto fare un percorso diverso, che passava per la cattedrale, dove mi sono aggirata un poco a guardare le statue dei santi, e attraverso la Porta di Pietra, sotto i cui archi si trova un’edicola alla Madonna. In un angolo c’era una donna che vendeva candele, mentre un’altra pregava di fronte a un quadro piazzato dietro una ringhiera di ferro battuto. Nel 1731 un grande incendio distrusse la vecchia porta di legno e tutto ciò che la circondava, tranne, così vuole la leggenda, il quadro della Madonna col Bambino, che quindi si ritiene abbia poteri magici.
I visitatori del museo somigliano molto a degli oranti, in piedi con le teste abbassate e le mani giunte, mentre si muovono lenti e silenziosi da una reliquia all’altra. È una mattina di un giorno feriale, e il luogo è relativamente vuoto. Ci sono giusto poche giovani coppie, e qualche donna di mezz’età con quel tipo di abbigliamento chic da viaggio preferito da francesi e italiane. Al museo sette visitatori su dieci sono donne, mi dicono, e la maggior parte di loro ha meno di quarant’anni.
Nella prima sala, sul lato degli stivali di Ana, sono esposti oggetti impregnati del ricordo dell’amore che è passato e per il quale non c’è posto per un nuovo amore. L’atmosfera è segnata da desiderio e rimpianto. Gli oggetti nella sala successiva portano il ricordo del dolore – più grande, sembrerebbe, dell’amore che lo ha preceduto. Dietro uno schermo di cristallo sporgono dalla parete due seni finti, donati da una moglie che veniva obbligata dal marito a indossarli mentre facevano l’amore, finché lei non lo ha lasciato. Da Berlino una donna, che è stata lasciata per un’altra dall’amante lesbica, ha spedito un’accetta. Mentre le due erano assieme in vacanza, l’amante abbandonata ha comprato l’accetta. «Nei quattordici giorni della sua vacanza, ogni giorno ho preso a colpi d’accetta un suo mobile». Poi ha disposto ordinatamente i pezzi, ha aspettato che la sua ex amante tornasse per raccogliere le proprie cose, e glieli ha fatti vedere.
Mi sposto rapidamente nella sala successiva, dove mi attira una luce rossa che lampeggia da uno dei tavoli luminosi. Di fronte ad esso c’è la coppietta che prima avevo sorpreso a baciarsi. Uno di fianco all’altra si tengono abbracciati per i fianchi, e lei ha la testa appoggiata sulla spalla di lui. Quando pochi istanti dopo si spostano, è il mio turno di guardare l’oggetto lampeggiante.
È una storia che fa piangere. Dopo tredici anni, quando il loro amore si è trasformato in amicizia, un marito lascia la moglie. Lei prende con sé il loro cagnetto, perché il marito sente che lei ha bisogno del suo conforto più di lui. Per mesi lui soffre di depressione, forse sente la mancanza di lei, non ci viene detto. Ma qualsiasi cosa provi, non torna indietro. Lei è preoccupata per lui. Un giorno lui riceve un pacco da lei con dentro poche piccole cose, ognuna delle quali, dice, «mi ha spezzato il cuore un poco di più, e riguardavano soprattutto la sua volontà di prendersi cura di me, nonostante fosse lei quella che soffriva». Tra queste cose c’era il collare del cane con la luce lampeggiante intermittente, che lei aveva comprato perché non si smarrisse. Nell’anno successivo alla separazione il marito le aveva detto di sentirsi «perso». Dopo che erano stati divisi per un anno, la moglie prende una stanza d’albergo in una città sconosciuta. Qui si toglie la vita. La luce intermittente, spiega lui, lo fa pensare al battito del cuore di lei.
Mentre cammino per il museo, sono storie come questa – che scioccano, che lasciano di sasso, che fanno arrabbiare – ad assorbire la mia attenzione. Ripensandoci in seguito, scopro che i miei pensieri tornano su oggetti meno drammatici: gli stivali di Ana, o l’album di fotografie delle nozze donato da una donna che era stata infelice nel primo matrimonio ma che adesso è felice nel secondo. Se penso ad essi, mi sento moderatamente sollevata. Sembrano mostrare che per quanto lungo e doloroso possa essere il processo, le persone possono imparare qualcosa su di sé e sull’amore.
Attraverso piazza Jelačić, che prima era chiamata Piazza della Repubblica, e penso a quanto per molti aspetti questo paese, dopo anni di comunismo e di guerra, sembri lo stesso rispetto a quando ci venni la prima volta, nel 1969. Ricordo vividamente quella vacanza per quanto avessi solo cinque anni: ero su una spiaggia con mia sorella mentre mia madre e il suo nuovo marito mi chiamavano da una barca di legno al largo per farmi arrivare a nuoto fino a loro. Ero terrorizzata: volevo il mio salvagente, ma era sulla barca e fra noi c’erano cinquanta metri d’acqua. Il nipote del barcaiolo, che doveva avere otto o nove anni, prese il salvagente, si tuffò e me lo portò. Per il resto della vacanza, fu il mio eroe. Lo ricordo, perché quella fu la primissima volta in cui provai qualcosa per qualcuno.
Mi restava moltissimo da imparare.

Museo delle Relazioni Interrotte
Ćirilometodska ul. 2, 10.000 Zagabria, Croazia
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