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Museum Mayer van den Bergh (Anversa)
Antonio Villani
28 Ottobre 2019
Nevicata di maggio
E' il sedici maggio e c'è il sole. Se fossi ancora a Napoli, questa premessa meteorologica sarebbe pleonastica; ma adesso sono ad Anversa, e ad Anversa il sole il sedici di maggio ha il sapore luminoso del miracolo. Io e O., dopo esserci passati inconsapevolmente dinanzi almeno due volte, siamo riusciti a trovare il museo Mayer van den Bergh. E' un edificio stretto, col frontone a gradini tipico delle nobili case fiamminghe. Ciò che lo rende insindacabilmente belga, però, è l'essere stato preso a spallate dagli anonimi palazzoni costruiti nel dopoguerra fino a rendersi invisibile. E' un fenomeno crudele, che nei grandi centri - Bruxelles e Anversa - raggiunge un doloroso parossismo. Alla biglietteria troviamo una comitiva di anziani. Sono olandesi, mi dice O. "Come hai fatto a capirlo?", le domando. "Dall'accento, ovviamente. E dal fatto che non urlano". Lo so perché sono qui, è il motivo principale per cui la maggior parte delle persone decide di avventurarsi in questa parte della città, ai margini del quartiere della moda e poco lontano dal meraviglioso Graanmarkt: lei, Dulle Griet, Margherita la Pazza, il capolavoro di Bruegel. Attendiamo che gli olandesi comincino la visita, prima di entrare. Nel corso del tempo, ho sviluppato una sorta di repulsione per la folla nei musei; non che eviti di andare in santuari come gli Uffizi, il Prado o Capodimonte, ma la gioia sospesa, sontuosa, surreale che ti dà passeggiare nelle sale di una galleria vuota, con l'eco dei passi che si alza come fumo fino alle volte altissime, è un piacere a cui non riesco a rinunciare. Per fortuna, sotto questo punto di vista O. è ancora più radicale di me. Della prima sala ci colpisce la qualità dell'ossimoro: l'arredamento scuro e la ricchezza dei quadri - splendidi ritratti di famiglia fiamminghi, paesaggi umorali che anticipano Constable di un secolo e mezzo - creano un effetto di opulenza severa. Restiamo un po' a contemplare quei volti perfetti che spuntano da gorgiere candidissime (ce n'è uno che ricorda in maniera clamorosa Christian Bale), mentre gli anziani olandesi transitano nella sala dedicata a Quentin Metsys, primo grande pittore di Anversa. O. mi stringe la mano: per lei le case-museo sono il massimo della delizia; uno dei suoi luoghi preferiti è la Rembrandthuis di Amsterdam. Sono felice, solitamente mi sento in colpa a trascinarla in questa o in quest'altra galleria per il piacere di vedere un solo semplice quadro, ma l'atmosfera in cui è immersa la casa del vecchio Van den Bergh ripaga entrambi. Dopo aver salito una rampa di scale insolitamente larga per gli standard fiamminghi, ci troviamo in un grande salone dove veniamo accolti dalla star indiscussa della casa. Il gruppetto di anziani prende posto su sedie scricchiolanti come le loro giunture, e la guida che li segue si piazza di fianco al grande quadro per illustrarne il contenuto. Impresa ardua: soltanto nel "Giudizio Universale" di Bruxelles, forse, Bruegel è riuscito a creare un caos più sublime di questo. I rossi dominano, l'Inferno aggredisce la Terra e diventa un tutt'uno con essa, le persone si lasciano andare a comportamenti incomprensibili. E su tutto questo baillame, su tutta questa magmatica confusione, domina la figura di Griet, per sempre dipinta e per sempre in fuga, per parafrasare John Keats. Gli anziani olandesi sono rapiti da quello strano antenato di "Guernica"; io mi metto a osservare le loro reazioni e il modo in cui guardano Griet, ma qualcosa nel riflesso del vetro che protegge il dipinto fa scattare il mio sguardo alle mie spalle. Mi giro, facendo cigolare la sedia come il portone di una villa infestata dai fantasmi, e lo vedo. Enorme e luminoso, chiuso a fatica in un angolo del camino, così ampio da poterci vagare con lo sguardo per ore. Mi avvicino per guardarlo meglio: un formicaio di uomini operosi, intabbarrati in pelli di animali per proteggersi dal freddo, che schizza da un lato all'altro della tela in un eterno movimento produttivo. L'occhio si perde dapprima sullo sfondo, dove la neve lascia spazio al profilo della pianura, e poi sui soggetti in primo piano. Ed è allora che riconosco, appena di fianco a un carro con ruote colossali, due figure familiari: un uomo anziano, umile, che traina un cavallo su cui è seduta una donna avvolta in un mantello turchese. Mi sporgo per leggere l'etichetta: Pieter Bruegel, "Paesaggio con censimento a Betlemme". Le due figure in primo piano, assorbite dal brulicare indaffarato delle altre figure, sono Giuseppe e Maria; stanno andando a Betlemme - anche se somiglia tantissimo alla campagna fuori da Anversa - confondendosi tra la gente, come nella realtà storica. Un brivido mi parte dal retro della testa e scende giù per la schiena. E' quel brivido che sento ogni volta che mi trovo davanti a un'opera d'arte - dipinto, canzone, poesia, donna - che mi impietrisce per la sua bellezza. Quel paesaggio, nascosto allo sguardo del visitatore che entra nella sala, è il perfetto contraltare di Dulle Griet: è la luce candida della vita contro l'eterno crepuscolo infuocato della morte; la soddisfazione dell'ordine contro il trionfo del Caos. Resto lì a fissare il quadro per interi, densissimi minuti; O. mi raggiunge poco dopo e mi prende ancora la mano. "Sei gelato", mi dice. "Stai tremando". "Fa freddo. C'è la neve", rispondo io. Anche se è il sedici maggio, e ad Anversa c'è il sole.
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