B come Bacio
Era stata una bella giornata, proprio come avevo sperato e immaginato che fosse quando avevo visto filtrare la luce dalle persiane socchiuse, nella stanza del Bed and Brekfast in cui alloggiavo con amici. Quando le avevo spalancate, il sole invernale aveva riversato la sua luce e il suo calore nella mia stanza e io avevo preso quella luminosa irruzione come una promessa di leggerezza e felicità, per quelli che erano gli ultimi due giorni dell’anno.
E dunque eccomi a Napoli per una breve vacanza da passare all’insegna del buonumore, dell’allegria, della festa.
Nel tardo pomeriggio ero uscita da sola per una passeggiata, in attesa che gli altri fossero pronti per la cena, e percorrendo a piedi un tratto di strada, immersa nel vivace traffico di via Toledo, lessi per caso la lucida targa d’ottone di un museo a me sconosciuto: la Galleria d’Arte di Palazzo Zevallos. Sapevo benissimo di avere pochissimo tempo, ma "mi aspetteranno", mi ero detta, e comunque sentivo che dovevo assolutamente entrare. Non sapevo il perché di quel desiderio improvviso e bizzarro: perché infilarsi in un museo completamente impreparata alla visita non era da me, perché farlo se i minuti erano contati non aveva senso, perché se c’erano gli amici ad aspettarmi per andare a cena non era gentile farli aspettare, e perché proprio quel giorno, il penultimo dell’anno... come se avessi un appuntamento al quale non dovevo mancare.
Ma "al cuor non si comanda", è lui a guidarmi, forse troppo spesso, dice mia madre, ma l’ho sempre ascoltato il cuore, e anche quella volta. Fatto il biglietto capisco che probabilmente ci sono solo io, nel museo, la sera del trenta dicembre; nel silenzio risuonano soltanto i miei passi e lo scatto della chiave che chiude l’armadietto in cui ho messo la borsa. Attraverso la hall circolare di quella strana banca-museo con il suo spettacolare soffitto a vetrate, salgo al primo piano e cammino veloce nelle salette silenziose e vuote, tra nature morte, ritratti, piccoli paesaggi. Guardo le opere nell’insieme, promettendomi di ritornare, deliziosi bozzetti a carboncino e piccole sculture di terracotta, sulle pareti i colori smorzati delle marine dipinte dai paesaggisti napoletani dell’ 800, un nastro variegato di colori pastello, illuminato qui e là dal bagliore di una preziosa cornice dorata colpita dalla luce di un faretto o dalla macchia cremisi del velluto di una poltroncina.
Attraverso le ultime stanze quasi di corsa, poi, girato un angolo e varcata una porta che accede ad uno spazio piccolo in cui la luce è smorzata il mio passo si arresta bruscamente e quasi perdo l’equilibrio perché mi trovo inaspettatamente davanti a lei, Orsola, che con il capo reclinato guarda il suo sangue santo sgorgare dalla ferita che una freccia le ha aperto nel petto.
E’ una visione che mi incanta e mi commuove, è come se mi sentissi ferita al cuore da quella stessa ferita che si apre nel giovane corpo della fanciulla, toccata nell’anima da quel gesto incredulo e nello stesso tempo così rassegnato e dolce. La guardo a lungo, guardo il volto reclinato sul petto, i capelli raccolti sulla nuca, la fronte illuminata dalla luce arcana della santità.
Sono sola nel piccolo ambiente, anzi siamo, noi, io e loro, la fanciulla Orsola e suoi aguzzini, sguardi biechi e volti contorti a significare quanto di più turpe può celarsi nell’animo umano e quanto invece, di santo, si può leggere nel profilo luminoso di un viso, nel gesto delicato di una mano.
Quando esco ho nel cuore qualcosa che non riesco a definire, non penso ai miei amici, alla festa, cammino tra la gente che affolla il marciapiede e che parla, si chiama, ride, ma le voci e i suoni mi giungono attutiti, smorzati dal silenzio che si è fatto nella mia anima. Cammino lentamente, assorta, e penso, allontanandomi, che avrei voluto baciare un lembo del sontuoso drappo rosso trattenuto dalle mani diafane della fanciulla.
Il drappo che avvolge il corpo di Orsola, santa e martire, nell’ultimo dipinto del disperato Caravaggio, in una stanza piccola di Palazzo Zevallos, a Napoli.