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Casa museo di Anna Frank
Giovanni Becherini
29 Ottobre 2019
Le finestre delle case di Amsterdam
Lessi stralci del Diario alle elementari senza che mi rimanesse addosso niente. Poi sono trascorsi quaranta anni e sono volato ad Amsterdam. Una città che forse un giorno eleggeranno a capitale del mondo. Sono andato con mia moglie e due amici carissimi. Fosse per me passerei le vacanze nelle mura di Fuori del Ponte a mangiar pizza al solito posto, tra via Veneto e via Fiorentina. Ogni volta mia moglie mi trascina con lei fuori di casa e quando torniamo sento aria fresca nei polmoni per mesi, e mi nutro di quell’ossigeno fino a che si esaurisce e piano divento di nuovo pigro d’animo. Non mi preparo mai ad un viaggio. Non sfoglio guide in anticipo e non mi informo sui possibili itinerari da seguire. Ve l’ho detto, sono pigro e non guarirò presto. Oltre al biglietto di Ryan Air, alcuni giorni prima di partire ho però comprato e riletto il Diario e un po’ di cose intorno alla sua storia. Amsterdam è una città (di un’Europa nordica e ricca) che ha un modo tutto suo di tirarsela senza che tu te ne accorga troppo. La vita costa assai, eppure accoglie tutti, e di tutto. Ci sono i poveri ad Amsterdam che camminano a fianco degli uomini d’affari. Mi è parso che i poveri non avessero intenzione di chiedere nulla agli uomini d’affari e poco avessero loro da invidiare. I colletti bianchi d’altra parte camminano ai loro uffici curvi sui telefoni e nascondono ad arte la puzza sotto il naso. Ispanici e americani, indiani, orientali e giovani ragazze bergamasche che non sono più tornate dal loro giro (e ora gestiscono un coffee shop nei pressi di Piazza Dam) popolano, mimetizzandosi tra loro, il centro città. Amsterdam è un ordito di strade vecchie e canali, di facce stanche e sguardi impenitenti, le architetture imperfette e le case storte appese a un filo invisibile sopra il saliscendi dei selciati. Le luci accese dentro alle stanze che si affacciano sui viali e nessuno che abbia voglia di tirare una tenda a proteggere o nascondere. Non c’è soluzione tra il giorno e la notte, il via vai nei quartieri del centro non s’interrompe e trovi sempre uno slargo a ridosso di una spalletta che ti invita a sederti per una birra che val la pena sorseggiare piano; c’è anche un tizio che ti guarda timido sulla porta di ogni coffee shop e poi si sposta lasciandoti il passo se hai abbastanza rughe sulla faccia. Ci sono le donne in vetrina che ti ammiccano ma dopo un po’ non riesci più a farci caso; trasgredire è camminare piano, voltarsi se qualcuno ti chiama, nuotare e respirare sott’acqua quando i più rimangono a galla fino a notte fonda. Abbiamo corso quattro giorni in bici perché la bici laggiù ti porta davvero ovunque. Dalla Chiesa Vecchia al mercato di Waterloo; poi Westpark e il vecchio birrificio Heineken; abbiamo fatto visita a Van Gogh, Vermeer e Rembrandt, e di sera al Melkweg. Ho pedalato come neanche da bambino e non ho mai staccato gli occhi dalle case sui canali. Avrei voluto comprarmi una di quelle case eleganti oppure un barcone attraccato alle sponde con il giardino di tulipani a poppa e un letto soppalcato a prua. Voglio comprare sempre un sacco di cose io. Prinsengracht si trova ad ovest rispetto al centro cittadino. Siamo arrivati là di pomeriggio, abbiamo parcheggiato le bici di fronte alla chiesa e affrontato a muso duro il serpentone che portava all’ingresso del 263, l’alloggio dove Anna Frank, la sua famiglia e le altre quattro persone rimasero nascoste dai nazisti per oltre due anni, vivendo al buio e nel silenzio fino al 4 agosto del '44, giorno in cui vennero scovate ed arrestate. Anna e la sorella Margot moriranno di tifo nel campo di Bergen Belsen agli inizi del '45. Moriranno tutti gli inquilini dell’alloggio segreto, tranne Otto Frank, il padre di Anna, uno dei 7650 superstiti che i russi liberarono ad Auschwitz il 27 gennaio del '45. Sarà lui a pubblicare qualche anno dopo la prima edizione del Diario. Siamo entrati dal passaggio nascosto dietro lo scaffale di libri e abbiamo attraversato il silenzio e il buio delle stanze nude. C’è stato un momento esatto, di fronte alla finestra del soggiorno coperta dalla stessa pellicola oscura che un tempo impediva agli abitanti di vedere il mondo fuori ad ogni ora del giorno e della sera, c’è stato un momento in cui mi ha preso un’emozione violenta, al limite del dolore. Il senso di una prigionia atroce, che non servì a salvare nessuno, ancora oggi impregna le stanze della casa, ed a un certo punto lo respiri come fosse una prima mano di vernice appena passata su quei muri; il senso opprimente di una clandestinità drammatica, sovrumana, lo stesso che Anna ci ha trasmesso dalle sue pagine. Tutto qui. Nient'altro. Ho scoperto in quell’attimo di stare in uno dei luoghi della Terra dove l’uomo ha commesso il più grande crimine verso se stesso, sempreché la bestia nazista possa essere considerata un nostro simile. Siamo tornati ai canali poi, sulle nostre bici, ed abbiamo pedalato fin quasi all’imbrunire lungo le vie fiancheggiate dalle stesse case costruite senza filo a piombo. Ho scorto un ragazzo che giocava alla Play Station dentro una grande sala illuminata a giorno ed ho provato ad immaginare perché la gente di Amsterdam non voglia più saperne di tende che si chiudono impedendole di guardare il mondo di là dalle finestre ad ogni ora del giorno e della sera.
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Commenti (1)
Patrizia Fornaciari
4 Novembre 2019
Vivace e ironico nello stile, direi allegro e doloroso. Toccante e profondo. Grazie Patrizia Fornaciari