37°08’ N 11°59’ E
Riposo in questa oscurità liquida da un tempo abbastanza lungo per aver fatto del mio corpo dimora di pesci e coralli. Testa e tronco conficcati nella sabbia, traversati dal carosello incessante delle nereidi in cerca di cibo; la gamba - l’unica rimasta - punta verso l’alto, solitaria bandiera di un regno conquistato da alghe e gorgonie.
«La statua! la statua! la statua!».
Tre volte risuona l’esclamazione dei pescatori che salpano la rete, ma capitan Ciccio non si muove e continua a fumare. È l’ultima cala, la cella frigo è piena, tra otto ore saranno a Mazara. Da quando hanno pescato la gamba, quasi un anno fa, l’equipaggio si diverte a canzonarlo, fingendo di aver trovato la statua da cui si è staccata. Le prime volte ci cascava, scappava a poppa col cuore in gola, accolto dalle risate dei suoi uomini. Ma stavolta Vito gli compare davanti in cabina, tutto rosso e concitato: «Piddavero ‘a truvammo, capitano!».
Corre a poppa. I verricelli stridono, l’ago del manometro schizza, il carico è pesantissimo, lo sforzo immenso. Poi appare. Due occhi bianchi che si piantano in faccia agli uomini stremati e increduli. La statua impigliata nella rete gronda fango, la sciacquano con manichette d’acqua dolce per alleggerirla, un braccio si spezza e va al fondo tra le imprecazioni dei pescatori, inabissandosi per sempre; infine, in mezzo alle triglie guizzanti, il Satiro emerge. L’emozione ammutolisce l’equipaggio, capitan Ciccio ha la gola secca ma deve chiamare terra, torna in cabina e afferra il baracchino, avverte la Capitaneria. All’una di notte il peschereccio attracca nel porto di Mazara.
Mi vegliano su un letto di reti, monco delle due braccia, perduti il tirso e il cantaro. Ignoro la mia sorte, confido negli Dei. Mi arrendo all’eterno viaggiare: Atene, Roma, Cartagine che non raggiunsi, rapito a Dioniso e alla mano che mi creò. Bottino di guerra, udii canti vittoriosi e crepitio di fuoco prima di sprofondare nell’immenso silenzio del mare.
Roma, Tokyo, Parigi. Dopo il ritrovamento e il restauro, il Satiro varca i confini del Mediterraneo esponendo la sua scandalosa bellezza nei più grandi musei del mondo, per tornare, infine, là dove è stato trovato: in Sicilia, a Mazara del Vallo. È una devozione quasi mistica quella che spinge i visitatori fino al piccolo museo che custodisce la statua venuta dal mare: un’antica chiesa sconsacrata, nascosta tra i vicoli del centro storico. Vi si entra in punta di piedi, il luogo invita al silenzio. Oltrepassato il grande paravento nero che taglia la navata, uno stupore soffocato: la testa dai capelli fluttuanti reclinata all’indietro, la bocca socchiusa in un rantolo d’estasi, il corpo trascinato nel vortice del movimento, il Satiro lascia senza fiato. Imperniato sull’asta metallica che sostituisce la gamba mancante, lo sguardo vitreo e allucinato, ci rapisce in un incantesimo così potente che potrebbe finanche sollevarci da terra e trascinarci nella sua danza dionisiaca fino a perdere i sensi.
Imbracato, sollevato, imbullonato. Il mio corpo ha conosciuto la lama di bisturi affilati e il tocco di mani guantate, il ruvido riparo dei sacchi di iuta e il gelido abbraccio della fibra di carbonio. Fuoco, cera, acqua. Dall’officina in cui vidi la luce, i palazzi di Roma mi furono dimora, il vascello di Genserico mi consegnò al mare. Eccomi giunto nell’ultimo approdo. In questo luogo sacro mi offro allo sguardo di un’umanità smarrita che ha perso i suoi Dei e rinnegato le sue leggi. Sto. Col mio muto parlare, col mio eterno danzare.