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Museo del merletto - Rapallo
Luca Ardito
9 Novembre 2019
Un compleanno tra le "tende"
È un nuvoloso 15 ottobre. Lo posso dire con certezza perché è il giorno del mio decimo compleanno. Elementari. Ultimo anno. 2014. Come in tutte le occasioni importanti mi rifugio nella biblioteca comunale, ad annusare e leggere libri. È un grande edificio, la biblioteca comunale di Rapallo. Tre piani. La villa – perché di questo si tratta – è stata donata al comune dalla famiglia Serra. Bella. Fino troppo, secondo i nostri severi canoni genovesi. Per arrivarci, bisogna attraversare un parchetto o, in alternativa, passare dal mare. Il giardino che la circonda è ben curato anche se, a volte, viene impropriamente usato come toilette per cani. All'entrata, quel nuvoloso 15 ottobre di cinque anni fa, non trovo la custode. Dovrebbe essere lì, eppure non c'è. Dovrebbe essere lì a dirmi di salutare tutti in famiglia, eppure non c'è. Dovrebbe essere lì ad indicarmi dove sono i libri su Genova – libri che sono scritti difficili, per l'età che ho, ma che amo per le immagini che contengono. Eppure non c'è. «Dannazione!» penso tra me e me, cercando di imitare il linguaggio del mio omonimo Luca che, qualche giorno prima, era arrivato a scuola con questa nuova parola e – dannazione – ci aveva fatto credere che solo se sei figo la puoi usare. Dannazione! Mi inoltro dentro villa Serra, superando quel rilevatore di metalli all'ingresso che, fra parentesi, non ha mai funzionato. Ho sempre avuto qualche difficoltà in più a ricordare l'ubicazione dei luoghi. Ed è forse anche per questo che odio la geografia. «Dove sei?» penso da solo. «Dove sei mia cara custode? Qualunque cosa tu stia facendo, smetti e vieni qui. Ad indicarmi dove dannazione sono i libri con le immagini di Genova». Niente. La mia preghiera non è esaudita. Non ricordando assolutamente nulla di come siano dislocati i piani, anziché salire le scale, tiro dritto e giro a destra. Basta fare due metri per accorgermi che quella, certamente, non è la sezione “Territorio di Genova”. E, a dirla proprio tutta, non è nemmeno la biblioteca, a giudicare dall'assenza di libri. Ma qualcosa mi ha inevitabilmente attratto, tanto che decido di fare ancora qualche passo in avanti. Non capisco perché debbano essere esposte delle “tende”. Non capisco, e lo domando ad alta voce. «Tende che in realtà non sono tende» dice una voce alle mie spalle. È la custode, quella donna simpatica che non mi ha mai detto come si chiama. «E cosa sono?» faccio io, con la mia solita cantilena genovese che mi contraddistingue. «Eh... È complicato, ma se vuoi proprio saperlo, te lo spiego» risponde lei. Io annuisco. «Queste “tende” sono in realtà dei merletti, dei preziosi tessuti che un tempo erano molto ricercati» spiega. Io mi incuriosisco ed è forse per questo che la custode inizia ad andare più a fondo. «In Liguria appaiono per la prima volta nel XIV secolo e, in poco tempo, diventano tanto famosi da arrivare pure in Inghilterra. Come puoi vedere, ogni “tenda” ha un suo particolare disegno che può essere fatto in due modi. O, normalmente, con l'ago. O con il fusello, che verrà utilizzato solo in epoche successive; in questo caso si usa un filo più grosso che velocizza tutto. Per crearlo si usa il tombolo, in Genovese 'balùn', che è un supporto cilindrico sul quale – con molta pazienza – si crea il disegno. Ci sei fino a qui? Sì? Bene. Allora proseguo. Importante è questo libro, Le Pompe, nel quale sono racchiusi tutti i modelli e i disegni ai tempi conosciuti. Se volessimo poi andare a vedere le varie tendenze, potremmo dire che nei primi decenni del XVII secolo, sotto l'influenza milanese, si ha l'adozione di forme e figure naturali. Come puoi vedere qui. Di qua, invece, ci spostiamo di un secolo; nel XVIII, infatti, la tendenza milanese scompare e lascia spazio ai nuovi modelli francesi e fiamminghi». Le faccio un attimo segno di fermarsi. Voglio vedere meglio tutti quei bei disegni che io, vagamente, avevo definito tende. Sono a dir poco stupendi. E non lo dico perché caratteristici del luogo o per altro, lo dico perché vero. Vedere tutta quella perfezione mi fa riflettere su quanta pazienza e su quanto tempo ci volesse per comporre dei simili capolavori. «Ma perché lo facevano?» chiedo, con lo stupore misto a sorpresa tipico dei bambini. «Ecco, è questo il punto. Devi considerare che inizialmente era uno svago riservato solo alle donne. Queste passavano interi pomeriggi a cucire, magari in compagnia delle amiche o insegnando quest'arte alle figlie. Poi, col tempo, la cosa divenne anche fonte di guadagno. Per esempio: le vedi quelle strisce dorate laggiù? Ecco, quelle erano in genere commissionate dai preti o dai vescovi, visto che pochi ai tempi avrebbero potuto permettersi di usare l'oro e l'argento per decorarsi gli abiti. Inoltre quello che le rende ancora più preziose è il fatto che nel XIX secolo, a causa della loro preziosità, vennero quasi tutte distrutte. Quindi, il fatto che questo museo le abbia, è cosa non da poco». Mi metto ad ammirarle, immaginandomi il prete che mi fa catechismo vestire quei pizzi dorati. Sono alti ma sottili e, a prima vista, sembrano pure leggeri. Se cucire certi disegni con il filo non era opera semplice, farlo con l'oro o con l'argento sarà certo stato quasi impossibile. «Guarda queste, invece. Non sembrano come in 3D? Questo perché nel XVII secolo, dai modelli barocchi, i Veneti e i Francesi riuscirono a dare l'illusione di profondità con il filo. Pensa: prima Brunelleschi con la prospettiva in arte, poi i Veneti con i merletti e, adesso, il 3D al cinema». Rimango un attimo a guardarle, attirato non tanto da quello strano effetto quanto – di nuovo – dal pensiero di coloro che quello strano effetto l'avevano creato. «Domande?» chiede quindi lei, molto cortesemente. «Sì, una. Perché proprio a Rapallo, il museo?». «Beh, per due ragioni. Primo. Dopo una fase di decadenza, nel XIX secolo i famosi Merli di Genova tornarono in vigore e, fra le principali città che contribuirono alla ripresa di queste antiche usanze, ci fu anche Rapallo. Secondo. Nel 1908 il collezionista padovano Mario Zemeo fondò a Rapallo una manifattura di pizzi, che rimase attiva per più di cinquant'anni. È anche grazie a lui se abbiamo questo museo. Anzi, molti dei pizzi che puoi oggi vedere sono suoi». La spiegazione finisce così. Aperta. Rimango ancora cinque minuti a guardare i pizzi, firmo nel libro all'entrata per non far chiudere la biblioteca e quindi anche il museo – visto che questo è periodo di tagli da parte del comune – e me ne torno a casa. È il mio compleanno. Non vi posso dire che l'aver visto quelle 'tende' fu il migliore regalo. No, sarebbe da ipocriti. Però, vi posso dire che fu un bel regalo. Di certo inaspettato.
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