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Museo dell'Apartheid - Johannesburg (Sudafrica)
danila straccia
12 Novembre 2019
Un museo senza opere d'arte
In questo museo non ci sono quadri, né sculture, né alcun tipo di opera d’arte. Solo un’attenta e documentata ricostruzione degli avvenimenti che portarono all'istituzione nel 1948 dell’apartheid - la segregazione razziale tra bianchi e non bianchi - fino alla sua abolizione nel 1991 e alla successiva elezione di Nelson Mandela come Presidente della Nazione Arcobaleno. La mia vacanza in Sudafrica, ospite dei cugini di mia madre, volgeva ormai al termine. Inutile dire che ero entusiasta dell’esperienza, definitivamente e pazzamente innamorata di questo paese dalla natura meravigliosa e a tratti incontaminata, sebbene pieno di contraddizioni e disuguaglianze sociali. Il giorno prima della partenza, i miei parenti, che vivono a Pretoria, mi propongono di visitare questo museo, del quale hanno sentito parlare, ma che nemmeno loro hanno ancora visitato. Avevamo parlato spesso dell’apartheid nei giorni precedenti, delle ferite che aveva lasciato nel paese e di quanta strada ci fosse ancora da fare per il rispetto dei diritti umani, nonostante la formale abolizione della segregazione. Partiamo alla volta di Johannesburg in una tiepida domenica mattina di agosto, che ai nostri antipodi è il mese che segna la fine dell’inverno. Il museo è ospitato quasi al centro della città, nel complesso Gold Reef City, in una bella struttura moderna e architettonicamente accattivante. Il biglietto è la prima cosa che colpisce: bianco o nero, con sopra scritto WHITE o NON WHITE, così come l’ingresso, diviso in due corsie non comunicanti, ugualmente contrassegnate con la distinzione del colore della pelle. Fin da subito si comincia a percepire un senso di oppressione, quasi come se ci si stesse immergendo fisicamente nella segregazione razziale documentata all'interno; non è consentito fare foto, ma francamente è l’ultima cosa a cui si penserebbe in questo museo. All'inizio del percorso museale, è illustrata la ricostruzione scientifica della comparsa dell’uomo sulla Terra, che secondo gli studiosi avvenne proprio in Africa, a dimostrazione che siamo tutti discendenti di persone di colore. Da questo momento in poi, si ha la sensazione di entrare in un girone infernale: tutto intorno sono esposti i cartelli che durante l’apartheid delimitavano le zone dove le persone di colore potevano accedere, rigorosamente separate dalle zone dei bianchi. Sale di attesa delle stazioni, bagni pubblici, fontanelle, fermate degli autobus, panchine, fila per attendere il taxi, persino un cartello che indicava il divieto di accesso alla spiaggia di Durban ai “non whites”. Le scritte sono in inglese e afrikaans, per le persone di colore l’odiata lingua dei conquistatori boeri. Ma forse, la testimonianza più agghiacciante, emblema della “banalità del male”, è un video che riproduce uno dei tanti discorsi deliranti di Hendrik Verwoerd, primo ministro sudafricano dal 1958 al 1966, teorico dello sviluppo separato delle razze e principale promotore della segregazione, che candidamente espone le sue teorie in base alle quali è proprio per il bene delle popolazioni di colore che è opportuno che tutte le attività della vita quotidiana avvengano in maniera distinta, per favorire lo sviluppo e la crescita umana, che in condizioni di promiscuità non potrebbero avvenire. E naturalmente tale “missione” non poteva che essere guidata, secondo il suo ideatore, dalla popolazione “eletta” dei bianchi, la cui percentuale sulla popolazione in Sudafrica era, ed è ancora, inferiore al 10% del totale. La visita prosegue con la documentazione grafica e multimediale sulle condizioni in cui viveva la popolazione segregata, dai soprusi che i cittadini di colore erano a costretti a subire ogni giorno, del continuo clima di terrore che li costringeva a vivere costantemente sotto la minaccia di arresto, anche solo se venivano scoperti sprovvisti di lasciapassare al di fuori dei quartieri loro riservati. E la detenzione poteva durare a tempo indefinito, senza un regolare processo e senza che i familiari dell’arrestato fossero informati del destino del loro congiunto. Nelle sale c’è silenzio, mi guardo intorno e mi rendo conto che anche gli altri visitatori, come me, sono divisi tra incredulità e sconcerto. Ci sono anche diversi ambienti dove sono esposte le armi e le dotazioni delle forze dell’ordine durante l’apartheid, tra le quali scudi, elmetti, maschere antigas, perfino un carro armato, uno di quelli che venivano usati, a volte, per reprimere nel sangue le proteste della popolazione di colore. Con la coda dell’occhio, scorgo il cugino di mia madre che si sta asciugando le lacrime, ma per pudore preferisco non chiedergli quali dolorosi ricordi possano aver scatenato in lui tale commozione. Lascia senza parole, tra le altre cose, la documentazione fotografica di uno degli eventi più tragici e significativi della lotta all’apartheid: l’omicidio a sangue freddo ad opera della polizia di un bambino di 13 anni, Hector Pieterson, avvenuto il 16 giugno 1976, la cui unica colpa era quella di aver seguito la sorella ad una marcia di protesta che si doveva tenere quel giorno a Soweto, il sobborgo di Johannesburg dove viveva segregata la popolazione di colore. Lo scopo della manifestazione, soffocata nel sangue con oltre duecento vittime tra gli studenti presenti, era quella di protestare contro l’ennesimo sopruso della classe bianca, che voleva imporre l'afrikaans come unica lingua di insegnamento nelle scuole, al posto dell’inglese. La foto del ragazzo morto portato in braccio da un amico, con la sorella disperata al suo fianco, ha fatto il giro del mondo provocando indignazione e disgusto nei confronti del regime sudafricano. Molti sono i momenti di estrema rabbia e incredulità che mi colgono durante la visita, viene da chiedersi come siano stati possibili la nascita e lo sviluppo di un regime così iniquo e violento, in una nazione che cercava di emergere tra le nazioni africane, regime tollerato a lungo anche da molti governi i occidentali che hanno continuato ad avere relazioni politiche e commerciali con il Sudafrica, facendo finta di non vedere, nonostante l’embargo proposto dall’Onu nel 1973. Ma alla fine del percorso museale, quando il disgusto e l’orrore sembrano sopraffare il visitatore, si intravedono le immagini e si sentono le parole di Nelson Mandela, che dopo 27 anni di carcere durissimo, dopo essere stato liberato ed aver vinto il Premio Nobel per la Pace insieme al Presidente De Klerk che aveva permesso la sua liberazione, viene finalmente eletto nel 1994 primo Capo di Stato di colore del Sudafrica. Ci si aspetterebbero parole intrise di odio e di desiderio di vendetta, ma Mandela lavorò instancabilmente all'istituzione della Commissione per la Verità e la Riconciliazione , di cui sono esposti alcuni atti, auspicando il dialogo tra le vittime e i carnefici dell’apartheid, e il perdono che, citando le sue parole, “libera l’anima, rimuove la paura. E’ per questo che il perdono è un’arma potente”. E allora, nonostante la violenza e il dolore respirati nel museo, le parole di Mandela riescono a lenire la rabbia che la narrazione delle vicende dell’apartheid ha provocato. Alla fine, nonostante tutto, vale sempre la pena di lottare per rendere il mondo un posto migliore. E’ stata un’esperienza emotiva intensa e commovente, un museo che ha lasciato un segno indelebile nei miei ricordi e nel mio cuore.
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