Vivere e lavorare sottoterra
Le flebili fiammelle delle due lampade a carburo sono come due stelle in un cielo altrimenti completamente nero. A fatica, la loro luce riesce a penetrare l’oscurità solo per poche decine di centimetri, un metro forse. È con questa luce che i due minatori, armati di martello e scalpello, attaccano le pareti ‘dell’intestino della montagna’. Cercano le vene di ferro e di altri minerali ferrosi, e una volta trovate le seguono, lentamente ma con decisione, lungo il loro percorso. Il loro lavoro, e quello di migliaia di altri minatori con loro e prima di loro nel corso del Tempo, ha scavato e scavato, creando capolavori di ingegneria e di architettura all’interno della montagna. Grandi sale, da cui partono colonne che salgono in diagonale, un’inclinazione che può arrivare a sessanta, anche settanta gradi, quella che le vene di ferro seguono naturalmente e che i minatori ripercorrono fedelmente nella loro ricerca del prezioso minerale.
“Possiamo riaccendere le luci?”, l’invocazione che arriva nel buio quasi totale da una giovane mamma che si porta in braccio la figlia piccola. Torna la luce, l’incantesimo si rompe, il gruppo di visitatori respira. Già, oggi, al posto dei minatori celti, prima, bergamaschi, poi, la Miniera Gaffione, poco fuori Schilpario, vede solo gruppi di visitatori, di turisti, ansiosi di vivere l’avventura delle miniere. Di scoprire e capire come, per tre millenni, migliaia di persone hanno vissuto, lavorato, faticato, anche perso la vita, decine se non centinaia di metri dentro e sotto la roccia. In quella, come in molte altre miniere delle Orobie. Ce n’erano dappertutto, in queste valli a cavallo tra Bergamo, Sondrio e Brescia. Buchi che, nel corso del tempo, scavo dopo scavo, sono cresciute fino ad essere intere città riprodotte nelle profondità delle montagne. Come nelle città della superficie, anche qua sotto ci sono vie e piazze, luoghi grandi e luoghi piccoli, passaggi e scale e scalinate, finestre e scivoli, depositi di attrezzi e materiali, sistemi di trasporto per materiali e persone, di comunicazione e di allarme. Nessuno più lavora in queste miniere, oggi e ormai da decine di anni. Questa, la Gaffione, è stata una delle ultime a chiudere, a cavallo degli anni Settanta e Ottanta. Oggi, rimane come testimone di secoli e secoli di duro lavoro in queste valli lontane da tutto e da tutti. Rappresenta una fonte di primaria importanza, per capire e comprendere la durezza della vita per chi, quassù, viveva.
“Non c’erano molte alternative, per chi viveva a Schilpario: si faceva il contadino, o si partiva soldato, o si emigrava sperando nella buona sorte. O si lavorava in miniera”, racconta infatti la giovane guida al gruppo di visitatori. “Il lavoro in miniera era duro, pericoloso: gli incidenti erano frequenti. Ma era pagato bene, meglio degli altri lavori. Per questo, nonostante tutto, era un lavoro ambito”.
Ci parla, la guida, delle miniere dalla metà dell’Ottocento in avanti, fino alla chiusura. Tempi in cui gli schilparini lavoravano in miniera durante l’inverno, quando le bestie erano nelle stalle e il lavoro nei campi fermo, per poi salire in quota, negli alpeggi, o andare a lavorare i campi e i boschi, durante la bella stagione. “Il lavoro in miniera era pagato bene”, diceva. ‘Tutto è relativo’, avrebbe detto Albert Einstein: per pagato bene, non dobbiamo intendere che permettesse chissà quali agi: in fondo, era questione di portare a casa la minestra, o meno. Le foto che la ragazza ci mostra, che risalgono agli anni Trenta – quando già la vita era migliore, a Schilpario e nel circondario – non mostrano maestranze felici. “Non ci sono minatori sorridenti”, dice infatti la guida al gruppo di visitatori. “Sono tutti magri, i volti scavati, induriti”. Passiamo in visione le varie foto che il gruppo che ha preso in gestione la Miniera Gaffione ha organizzato in una serie di esposizioni di immagini dell’epoca, dai primi del Novecento in avanti, che testimoniano le condizioni di vita e di lavoro dei minatori e della comunità schilparina: no, il sorriso non è contemplato, nella vita di chi lavorava in miniera. La cosa appare stridente in quelle foto che radunano i minatori con i gerarchi fascisti in visita. Questi, nelle loro belle divise ricche di mostrine e medaglie, in carne quando non addirittura grassi. Quelli, nemmeno con addosso i ‘vestiti della domenica’, vestiti che comunque non riempiono mai, riescono ad avere un aspetto di gente in salute. E soprattutto, non sorridono, hanno facce serie, tirate.
Il percorso di visita si snoda da una sala all’altra per circa un’ora e mezza. Si possono ammirare quei gioielli di architettura e di ingegneria, e in un certo modo di arte, che i minatori hanno costruito nei millenni.
“Le colonne che vedete nelle sale più ampie sono state costruite dai minatori, scavando tutto intorno. Servivano a dare stabilità alla sala, a evitare collassi improvvisi della volta”, spiega. La pressione dei centinaia di metri di montagna sopra la nostra testa, infatti, è tale che, senza quelle colonne, le grandi sale – anche centinaia di metri di larghezza, per diverse migliaia di metri cubi sbancati – non potrebbero resistere. Come le pareti delle sale, anche le colonne sembrano sbilenche: seguono anche loro la linea delle vene di ferro, magari con meno accentuazione, con inclinazioni più deboli, ma trovare qualcosa di veramente verticale, qua sotto nel ventre della montagna, è davvero difficile. Nemmeno le sale lo sono. “I minatori lavoravano di martello seguendo le vene: sapevano che, dal punto in cui le trovavano, queste proseguivano in alto o in basso secondo un’angolazione precisa, sessanta e anche settanta gradi. Per questo vediamo che tutto, o quasi, è inclinato. Per questo vediamo che, dai corridoi di passaggio come quello dove siamo noi, partivano scale di legno che consentivano ai minatori di salire lungo le pareti della sala e continuare a lavorare, a scavare il prezioso minerale”.
Sembra facile, ma immaginate di salire scale di legno, appoggiate a pareti di roccia, e di picchiare con martello e scalpello per staccare pezzi di parete dalla montagna. Per ore ed ore al giorno. Non proprio il più semplice dei lavori, ci vogliono forza, capacità di stare in equilibrio su una scala malmessa mentre si usano attrezzi pesanti. Gli incidenti erano all’ordine del giorno. Pensiamo anche che non erano pagati a ore lavorate, ma a cottimo: tanto producevano, tante ceste di rocce e sassi da cui ‘spremere’ i minerali ferrosi, tanto prendevano. Gli adulti. I bambini, e ce n’erano molti che lavoravano nelle profondità della montagna, invece erano pagati semplicemente con il vitto. Nemmeno l’alloggio, solo il vitto. Lasciare, abbandonare, cercare altro lavoro? Possibile, ma improbabile: per quanto possa sembrare impossibile, quello del minatore era il lavoro ‘migliore’ in Val di Scalve e nelle altre valli. Nessuno l’avrebbe lasciato, se non per cause di forza maggiore, a dispetto delle condizioni di lavoro.
L’innovazione tecnologica portò all’introduzione del martello pneumatico. Un miglioramento per le condizioni di lavoro dei minatori? “In realtà, no”, ci tiene a chiarire subito la guida. “Il martello pneumatico permise di lavorare più velocemente, faceva il lavoro di più minatori, significò la perdita di molti posti di lavoro, ma anche il peggioramento delle condizioni di lavoro, era pesante e difficile da manovrare, ci volevano due persone, e di quelle ambientali”. Già, perché a dispetto di quanto si può pensare, l’aria nella miniera era migliore che all’esterno. “Il ferro nella roccia agiva da catalizzatore, richiamando la polvere che i minatori provocavano con i martelli”. È talmente più pulita che all’esterno, l’aria, che in alcune miniere in Valcamonica e in Valtrompia si sfruttano le miniere come luoghi di cura per alcune malattie respiratorie. Il martello pneumatico, invece, causava talmente tanta polvere che la roccia non poteva agire da catalizzatore. Da pulito che era, l’ambiente delle miniere divenne polveroso. Una polvere pericolosa, che finiva nei polmoni dei minatori. Alla lunga, provocava tumori ai polmoni, li rendeva rigidi, impedendo la respirazione. “Il nonno di un mio amico era solito attaccarsi con le mani in alto alle porte, una posizione che facilitava la respirazione, dava sollievo da una situazione di grande difficoltà. Come lui, tanti altri, dopo anni di lavoro in miniera”. Da parte delle società minerarie, o dalle istituzioni sanitarie, naturalmente nulla. Alle società, in effetti, non interessava migliorare le condizioni di lavoro, interessava soltanto che i minatori lavorassero e producessero. La soluzione al problema della polvere fu agganciare ai martelli pneumatici tubi che spruzzassero acqua ad alta pressione, in modo da intercettare le particelle di polvere. In effetti, l’acqua fece il suo dovere, ma contemporaneamente si formarono ovunque rivoli di fanghiglia che resero il pavimento delle gallerie alquanto disagevole, per camminare e lavorare.
Se le società minerarie dimostrarono tutta la loro protervia e indifferenza nei confronti dei lavoratori, la comunità locale diede invece prova di grande coesione e solidarietà. Gli schilparini diedero vita a una grande società di mutuo soccorso, con l’obiettivo di portare assistenza ai minatori e alle loro famiglie. Anche una sorta di pensione, e di vitalizio per le vedove nel caso, non raro purtroppo, della morte del minatore. Un sistema che ebbe un successo più che discreto, alla base della resistenza della comunità schilparina nei decenni tra la metà dell’Ottocento e gli anni Settanta del Novecento. Alla base anche dell’orgoglio con cui Schilpario mostra il suo passato, che sia sottoterra o in superficie, attraverso miniere come la Gaffione, o il Museo etnografico, o altri punti di interesse storico presenti sul territorio.