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Casa Museo di Palazzo Sorbello
Cristiano Croci
15 Novembre 2019
Prego, entrate! Una guida d'eccezione
Ladies and Gentlemen, please come! Venite pure, l’androne è molto grande, starete comodi. Mi presento: il mio nome è Romeyne Robert e siete i benvenuti a Perugia e a Palazzo Sorbello. Oggi, in via del tutto straordinaria, farò gli onori di casa. Mi hanno detto che si può far uso dell’immaginazione, perciò perlustreremo questo posto in lungo e in largo, nello spazio e nel tempo. Sapete, il palazzo è grande. Pensate che se potessimo sganciarci dai gioghi cartesiani, liberi da assi di riferimento, dalle recondite profondità dei suoi sotterranei fino alle punte protese delle sue antenne paraboliche, Palazzo Sorbello misurerebbe più di due millenni! Fra tutte le storie che si sono incrociate e avvicendate in questo spazio-tempo, ebbene, c’è stata la mia. Sì, lo so, ho visto la faccia che avete fatto quando mi sono presentata. Nessuno mi collegherebbe al palazzo se non conoscesse la mia storia. Sono americana, cresciuta nella piccola Morristown, New Jersey. Mio padre era un imprenditore, di lontane origini ugonotte, un uomo serio e devoto. Mamma, discendenza irlandese, era una grande viaggiatrice. Le strade dell’amore mi hanno guidato fin qui. Amore per l’Italia, per la sua splendida arte e, of course, per un uomo: il marchese Ruggero Ranieri di Sorbello. Ruggero era il mio uomo, molto avvenente, tutto di un pezzo. Ci incontrammo in un giorno d’estate. Il secolo XIX era agli sgoccioli ed ero a Roma in viaggio, proprio insieme a mia madre. Durante l’intervallo di uno spettacolo al Teatro Argentina si fece avanti questo bel giovanotto, capelli chiari e naso aquilino. Disse che era seduto un paio di file dietro di me e non sapeva decidersi su quale fosse lo spettacolo più interessante da guardare. Che Ardore! Arrossii. Feci finta di niente, ma in realtà già l’avevo notato, alla fila per il botteghino. Conoscevo un poco di italiano all'epoca, ma lui mi chiese di conversare in tedesco, cosicché la difficoltà di comunicazione risultasse reciproca e nessuno si sarebbe sentito più in imbarazzo dell’altro. Ma parlare era superfluo. Mi prese la mano, la strinse delicatamente e la avvicinò alla bocca per gli ossequi. Sentii il suo calore sotto il cotone dei guanti bianchi. I nostri sguardi si incastrarono l’uno nell'altro e sotto i baffoni folti vidi per la prima volta il suo sorriso. Chi lo conosceva sapeva che quello era un privilegio per pochi… Oh, love! Non mi fate continuare, per favore. A 140 anni suonati una gentil signora non può più pensare a queste cose. Dov'eravamo rimasti? Oh, right. Il palazzo. Palazzo Sorbello era una delle nostre residenze, in cui passavamo principalmente l’inverno. È molto grande, accogliente e ha una magnifica vista. In realtà, quando venni a Perugia per la prima volta, nel 1902, il Palazzo non era proprio al massimo del suo splendore. Ero fresca di nozze e il palazzo del mio principe azzurro non era certo di quelli che si raccontano nelle favole. Più che a un palazzo nobiliare assomigliava a una caserma. Ruggero era un uomo pragmatico e, al contrario dei suoi antenati, non dava molta importanza all'estetica. La politica e l’imprenditoria erano le sue passioni. Vivevamo in un periodo difficile per la nobiltà, non avevamo i privilegi di cui godettero i nostri predecessori e se si voleva tirare avanti la baracca si doveva lavorare sodo, così lui spesso affermava. Perciò, a forza di lavorare sodo, tra la gestione delle rendite, delle tenute agricole e l’intensa frequentazione della vita politica perugina, i fasti e le bellezze dei tempi passati furono un po’ tralasciati. Insomma, era chiaro che in questo ambiente mancava il tocco di una vera signora. Un giorno ero di rientro dalla passeggiata mattutina per Corso Vannucci, il corso principale di Perugia, insieme alla mia amica Nathalie, che era venuta a trovarmi dall'America. Ci fermammo accaldate per riposare un poco proprio quassù, sul pianerottolo dello scalone monumentale che dall'androne porta al piano nobile. Mentre parlavamo, vidi il suo sguardo fissarsi curioso verso un punto indefinito alle mie spalle. «Cosa c’è dietro quella porta?» mi chiese. Mi ero trasferita da poco tempo, e confessai di non sapere. Tralasciai di dirle, con un po’ di vergogna, che in realtà non mi ero mai accorta di quella porta, piccola e nascosta in un angolo, mimetizzata dal colore della vernice di cui era ricoperta, che riprendeva gli stucchi posti a decorazione della parete. La aprimmo e rimanemmo un po’ deluse nel constatare che lo spazio a cui dava accesso era un piccolo ripostiglio di servizio utilizzato dalle domestiche per riporre gli attrezzi per la pulizia. Ma all'apertura della porta e alla sensazione di non sapere cosa poteva esserci al di là, qualcosa scattò in me. In un lampo la mia mente visualizzò tantissime altre porte, porticine e botole che non sapevo dove conducevano e che avevo imperdonabilmente ignorato. Ci mettemmo così a perlustrare da cima a fondo il palazzo e tutti i suoi anfratti, finanche i più reconditi e segreti, scoprendo vani, stanzini, passaggi, alcuni dei quali erano chiusi da decenni, forse da secoli. Trovammo oggetti abbandonati o semplicemente dimenticati, che parlavano chiaramente della lunga e gloriosa storia che è passata attraverso di essi. Storia fatta dal loro uso, come un calamaio o un candelabro di porcellana, o attraverso la loro esposizione, come stampe e ritratti di famiglia. Ci sentivamo due archeologhe dentro un mausoleo, due navigatrici di fronte a un’isola mai esplorata. Il bottino fu soddisfacente: in un sotto scala, accanto a un mucchio di carbone e sotto altre cianfrusaglie, l’occhio attento di Nathalie scorse una cassetta di legno. Dentro trovammo un intero servizio da tavola di porcellana Sèvres. Poi, sempre più eccitate e mai paghe, coronammo la spedizione in soffitta con il ritrovamento all'interno di un armadio – di cui si era persa la chiave e che scardinammo con l’aiuto di un domestico – di metri e metri di splendido tessuto broccato di seta rossa scarlatta. Un anno dopo Nathalie tornò a trovarmi. L’aspetto del Palazzo era decisamente migliorato. La accolsi in un salone tappezzato di quel magnifico broccato rosso e pranzammo sui piatti del servizio di porcellana Sèvres. If I may say, modestamente, scelsi in prima persona gran parte del nuovo arredamento e allo stesso modo è merito mio se oggi possiamo avere quella vista. Come on, venite con me! Questa terrazza, oggi una delle migliori attrazioni della casa, fu fatta costruire da mio marito – sotto la mia consulenza, si capisce. Lasciate dondolare la vista dolcemente tra i colli che delimitano la Valle umbra del Nord, partendo dalle punte dei campanili di Corso Cavour, scendendo giù vertiginosamente lungo i fiumi della valle e, per il colle d’Assisi, sù verso il tondo Monte Subasio, che nei giorni primaverili si fa di un verde che riempie gli occhi. Poi, il tramonto che dipinge di arancione la facciata della Basilica di S. Domenico non si dimentica facilmente. Confesso che mi divertiva guardare l’espressione stupidita da tanta bellezza degli ospiti che ricevevo spesso in terrazza per ascoltare musica o per piccoli rinfreschi. Successe anche in un pomeriggio del marzo ’42, quando vennero quei signori da Roma, emissari della Principessa Maria Josè di Savoia, la futura “Regina di maggio”, sebbene in quel frangente la tensione non lasciò spazio per la contemplazione del panorama. Stanca dell’immobilismo della famiglia reale, la principessa era più che mai decisa a far qualcosa per rovesciare il regime di Mussolini, con il quale era da tempo ai ferri corti. Fui onorata di far parte delle relazioni segrete che stava intessendo e mi misi a completa disposizione. Invitai dei musicisti e alcuni fidati amici perugini per mascherare il tutto in un incontro mondano e non insospettire la polizia fascista. Poi gli eventi fecero il loro corso e il progetto del colpo di stato si interruppe con gli accadimenti del luglio ’43, a partire dai bombardamenti su Roma: l’inizio della fine di Mussolini. Ma la terrazza non era la sola attrazione che allietava il soggiorno dei nostri ospiti. Come dicevo, sebbene il palazzo sia stato costruito intorno alla metà del Cinquecento, possiamo considerare questo luogo molto più antico perché ingloba con le sue fondamenta il Pozzo Etrusco (per noi Pozzo Sorbello), una cisterna artificiale che gli uomini utilizzavano per soddisfare i propri bisogni idrici fin dal III secolo avanti Cristo. Quel vuoto ricavato nella viva terra, esistente da quando la Grande Sfinge di Giza era ancora un lontano progetto, è colmo di storia ed entrare al suo interno è come entrare dentro l’anima della nostra città, nel suo inconscio più ancestrale. Per secoli l’unico accesso interno era raggiungibile attraversando i sotterranei del Palazzo. Una scaletta ripida e stretta portava giù nei magazzini, umidi di grotta, fino ad una finestrella dalla quale ancora oggi ci possiamo affacciare sui quei 37 metri di vuoto primigenio, lo stesso identico vuoto che veniva percorso più di duemila anni fa dai secchi assetati e gocciolanti dei nostri antenati etruschi. Non saprei tenere il conto di quante persone hanno percorso quella scaletta e calcato i pavimenti del palazzo nel corso del tempo. Se fossimo passati per una visita all'inizio del XIX secolo avremmo trovato nelle sale della nostra biblioteca di famiglia un giovane Luigi Bonazzi, figlio del domestico di casa Sorbello, immerso in un verso di Leopardi o di Byron. I marchesi per primi notarono il talento del giovane e promossero la sua formazione artistica e letteraria, che lo portò ad essere il personaggio più importante e famoso della Perugia di quel periodo, al quale la memoria storica di questa città deve molto. La biblioteca è uno dei patrimoni più importanti lasciatici in eredità. Usavo trascorrere molte ore là dentro leggendo le poesie di Thomas Carlyle, il poeta che io e Ruggero amavamo più di tutti. Anch'io ho contribuito allo sviluppo di questa biblioteca, comprando e facendo venire dall'America moltissimi libri, naturalmente di letteratura anglo-americana. Miei moderni e giovani ospiti, con tutto il rispetto e l’ammirazione che ho per i vostri e-book e i vostri cataloghi on-line, non posso che cedere alla nostalgia pensando all'odore che mi avvolgeva quando ero circondata da tutti quei volumi, più di 25 mila, o alla soddisfazione di spulciare il catalogo, scheda per scheda, scovando ogni volta nuove antiche rarità. All'interno di una biblioteca ti senti protetta. I muri fatti di carta, inchiostro e conoscenza attutiscono i rumori e amplificano i pensieri. Il mio amore per i libri era così grande che contagiò anche mio figlio Uguccione. Immaginatevi l’orgoglio di una mamma che legge questi versi, scritti dal figlio in giovane età, probabilmente anche lui colpito da quel naturale effetto ammaliante che produce un’antica biblioteca nobiliare (non resisto, devo leggervelo!): […] Marmo va in polvere, bronzo è corrotto: Crollano le bianche colonne, Gli sculti dorati fastigi, Travolti nei flutti del tempo: Tribù, nazioni, imperi Ripetute dissimili volte Sparirono; E dalle voragini buie Nuovi emersero uomini Ad opera nuova Mentre alcuni di voi Guardavate O libri Allineati sovrani coevi di ieri e domani Con lo scettro di menti ormai spente Qui nell’alto silenzio Che l’arido tarlo scandisce Regnate su chi brevemente Varca i vostri confini, Narrate a chi pena e gioisce Ciò che più non duole o rallegra, Al cuore di uomini andanti Il segreto di cuori già fermi. Oh, my little man! Immagino che scrisse questi versi poco tempo dopo che gli fu concesso di entrare in biblioteca da solo. Mio marito era severo con i nostri figli, in particolare con Uguccione, che fra tutti era il più esuberante. Me lo ricordo in braghe corte proprio là, davanti alla porta della biblioteca, bramoso di attraversare la soglia, con il naso all'insù ad ammirare l’iscrizione dipinta a lettere capitali sull'architrave. Mai altro motto sarebbe stato più adatto per descrivere la sua vita: “Scribere legenda. Facere scribenda”. Il motto ci incoraggia a scrivere per far sì che gli altri ci leggano, a fare per far sì che gli altri scrivano delle nostre gesta. Plinio il Giovane affermava che basta una delle due attività per essere felici. Il mio Uguccione non era contento se non le perseguiva entrambe. Egli aveva una passione sterminata per la cultura, così grande che il suo entusiasmo contagiava chiunque avesse intorno. Capiva la bellezza della conoscenza e ne aveva colto le grandi potenzialità. Sapeva che la cultura è l’unica risorsa che cresce solo se condivisa, l’unica ricchezza che aumenta quando viene ceduta agli altri. Chi veniva a fargli visita a palazzo lo trovava – quando lo trovava e non era in giro per il mondo – a spulciare archivi e cronache dei secoli passati per ricomporre la belle époque Perugina, o per narrare con struggente zelo la storia d’amore di Porzia Corradi, impiccata per adulterio a 17 anni nella nostra città, o chissà per quale altra storia, da ricostruire e consegnare ai posteri. Implacabile e travolgente, non si schiodò da New York finché nel ’64 non gli promisero che avrebbero intitolato il ponte sul fiume Hudson, all'epoca uno dei ponti più grandi del mondo, a Giovanni da Verrazzano, il navigatore italiano che per primo navigò la baia dove oggi sorge la Grande Mela. Eroe della resistenza, scrittore, giornalista, “trafelato, gualcito, impataccato e capellone, con le tasche deformate da fasci di carte”, così lo incorniciava affettuosamente Indro Montanelli sulle pagine del Corriere della Sera, così ce lo ricordiamo tutti. Miei cari amici, siete quasi pronti per visitare il pezzo migliore del palazzo, che è su al piano nobile, la Casa museo. Lì troverete molti dei tesori che la famiglia ha accumulato in più di sei secoli dalla sua comparsa, quando un ramo della famiglia dei Bourbon del Monte Santa Maria si staccò e costruì la sua fortezza su un piccolo colle, al confine con la Toscana. Lì oggi sorge un paesino che prende il nome di S. Andrea di Sorbello e sul punto più alto, nascosto da un fitto bosco, il Castello di Sorbello domina la valle. Noi amavamo trascorrere al Castello le settimane estive, troppo afose e soffocanti per restare in città. In antichità il Castello era il centro di potere del feudo gestito dai nostri antenati. Sia la buona rendita economica del feudo, sia la sua posizione strategica, al confine fra lo Stato Pontificio e il Gran Ducato di Toscana, permisero ai Marchesi Bourbon di Sorbello di scalare le gerarchie aristocratiche del territorio e di allargare i propri interessi fino a Perugia. Fu Uguccione III Bourbon di Sorbello a scambiare con un’abile operazione commerciale la modesta casa dove abitava in via Larga con il maestoso palazzo in Piazza del Giglio (oggi Piazza Piccinino) svenduto dai Conti Eugeni-degli Oddi alle prese con guai finanziari. You know, non erano affatto contenti di separarsene: quello non era solamente un bel palazzo, ma era famoso ormai in città per essere stato il Palazzo dove dormì nientedimeno che il Re di Spagna. Nel 1734 Carlo III di Borbone, di passaggio mentre marciava verso Napoli per liberare la città partenopea dal dominio austriaco, entrò a Perugia in pompa magna, seguito dalla sua corte e dal suo oceanico esercito. Scelse proprio il nostro palazzo per soggiornare, cinque giorni e cinque notti, in una stanza con terrazza che dava sulla piazza sottostante, e proprio lì si fece ritrarre da un pittore locale in posa con la sua corona. Vedrete di sopra il ritratto, posto proprio nell'ambiente che fu la sua camera da letto. Pare che l’anno successivo, dopo essere stato incoronato re delle Due Sicilie, non trovò a Napoli un palazzo tanto bello e confortevole al punto che fu costretto a costruire la Reggia di Caserta! All right, all right¸ forse sto esagerando, ma a noi piace pensare così. E così, in un giorno imprecisato del 1780, il palazzo passò di proprietà e tutto ebbe inizio. Un giorno molto importante per tutti noi. La grata in ferro battuto che ricopre la vèra del Pozzo – quella lì che vedete fuori, di fronte al portone di ingresso – ricorda quel giorno. I due stemmi battuti a decorare la grata si avvicendano simboleggiando l’avvicendamento delle due famiglie. I’m sorry? Mi chiedete se i Bourbon di Sorbello discendevano dalla dinastia dei Borboni francesi, i re di Francia? Così loro sostenevano, discendenti di un cavaliere capetingio che nell’Alto Medioevo cavalcò l’Italia centrale conquistando alcune terre. Come? Se è vero? Miei cari amici, non posso mica dirvi tutto io! Lascio a voi il piacere di godervi questo mistero, e magari risolverlo una volta che sarete all’interno del museo. Di sicuro sappiamo che l’ultima rappresentante del ramo Bourbon di Sorbello fu mia suocera, Altavilla, che sposò Giannantonio Ranieri, e da quel momento l’appellativo Bourbon cadde in disuso, lasciando spazio alla nuova linea di discendenza. Ad ogni modo, varcando le porte della casa museo scoprirete un pezzo di storia del palazzo che comincia proprio con Uguccione III, il primo proprietario, e i suoi 15 fratelli. Già so che domanda vi è venuta in mente: sì, 16 figli tutti dalla stessa mamma, la solerte Marianna Arrigucci, discendente di una nobile famiglia perugina. Tra tutti, tre di loro si distinsero per qualità e competenze relative all'arte, al collezionismo, alla cultura in genere: Uguccione III – appunto – Diomede e Ugolino Bourbon di Sorbello. Avrete modo di vedere i loro oggetti, le loro collezioni e, tramite questi, di ripercorrere le loro storie e le storie di chi in questo palazzo ha lasciato la propria traccia. Faccio qualche nome? Vittorio Alfieri, Carlo Emanuele III di Savoia, Baldassarre Orsini, e molti altri ancora. Alla fine, nell'ultima sala, troverete anche la mia storia. Spero che vi piacciano ricami e merletti, perché ero una vera specialista. Mi ricordo che all'epoca piacevano molto, soprattutto all'estero, tant'è che non esitai ad aprire una scuola di ricamo e diventare una donna d’affari, seppur sempre con grande gusto! Ma ora basta, non voglio svelarvi altre sorprese. Vi ho appena dato qualche anticipazione, ma di tanto altro parlano gli oggetti che vedrete di sopra. Aneddoti, curiosità, vicende storiche e avvenimenti. Memoria locale, nazionale e mondiale. Tutto legato da un sottilissimo filo rosso, la storia di Palazzo Sorbello. Storia nella quale, cari amici, ora siete anche voi, portatori di quel filo che da duemila anni si svolge ininterrotto. Goodbye and see you soon!
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