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Casa d'Arte Futurista Fortunato Depero - Rovereto
Elena D'Incerti
18 Novembre 2019
L'ultimo manifesto
- ‘No, no e no’ (rombo di tuono). - ‘Pensaci, invece, Fortunato: è una soluzione niente male’. - ‘Ripensarci, Rosetta? E’ un obbrobrio, un compromesso, un orrendo ripiego’ (rumore d’ingranaggio di macchina industriale). Le erre arrotavano l’aria e si amplificavano incontrollate nel portico antistante la dimora nobiliare proposta dal Comune a Fortunato Depero per dar vita alla sua casa museo: un atelier tutto suo dove venisse custodita e consacrata la storia del Maestro, concittadino illustre dei Roveretani fin dai primi anni Venti. Rosetta mediava paziente e sentiva il suono delle vocali cupe di Fortunato scontrarsi con le consonanti delle sue parole urlate in una sinfonia di rotacismi quasi volessero animare lì, proprio lì, il minaccioso Manifesto dei Musicisti Futuristi che degli strumenti musicali evocavano “la varietà delle combinazioni, cooperando alla distruzione del passato”. Riusciva quasi a sentire quella musica, disarmonica come uno schiaffo, fare da sottofondo nelle sale del museo che ancora non c’era: la visione per una volta (o ancora una volta?) l’aveva lei, Rosetta. Del resto era sempre stata al suo fianco e mai in attitudine di retroguardia. Certo, in ogni tappa del loro percorso di vita, in ogni puntata del loro sodalizio, a Roma, a Capri, a Torino, a New York, era stata bravissima a smorzare gli ardori del genio e del personaggio tutte le volte che ce n’era stato bisogno. Il lavoro che le riusciva meglio era cucire e ricucire: metaforicamente e non. Forse per questo si era lanciata con l’entusiasmo di una ragazzina nell’arte fatta di stoffa, quando china sul telaio a organizzare il lavoro di altre donne dei borghi trentini, aveva contribuito in prima persona alla produzione delle tarsie multicolori di quegli arazzi che erano stati una risposta del marito ai linguaggi tradizionali della pittura. Via le tele, via i pennelli, largo alle tessere morbide di panno e di lana dei mosaici-tappeto. Anche quel gioco Rosetta riusciva a immaginarselo là, in quelle sale che per lei avevano già la forma del museo: perimetri contenuti ma altezze infinite, lucernai da cui, tagliente, la luce sarebbe filtrata sapientemente sugli arazzi e magari anche sulle sculture giocattolo, sugli automi, sulle marionette partorite dalla fantasia instancabile e giocosa di Fortunato. Non la turbavano i dettagli strutturali da casa con un passato rustico. La porta in legno inchiavardata col ferro avrebbe immesso con geniale spirito di contaminazione in un ambiente rivoluzionario in cui alle pareti, a mo’ d’affresco, avrebbero sfilato in sequenza i disegni delle tante campagne pubblicitarie. Al centro delle sale l’arredo firmato da lui (e da lei….): credenze, tavoli, sedie. E già che c’erano, perché non siglarli e consegnarli alla storia del design? Magari con un acronimo intagliato: già se lo vedeva, Rosetta: una D, una M: “Museo Depero”. Non era stato lui in fondo l’antesignano della reclame e della comunicazione? Fortunato come prodotto di se stesso: trent’anni prima aveva detto “L’arte dell’avvenire sarà potentemente pubblicitaria” e se i più avevano scosso la testa svilendo queste parole come un’ennesima sfida da manifesto marinettiano, Rosetta no: lei ci aveva creduto, l’aveva seguito e per questo adesso nel museo lei voleva tutto. Desiderava arrivasse qui anche il tavolino colorato rivestito di buxus, il materiale che in pieno regime autarchico riciclava la carta e la sostituiva alle impiallacciature di legno. Perché anche nello studio dei materiali tecnica e ideologia di Fortunato si fondevano in un unico impasto originale: sfidare, osare, innovare. Rosetta voleva poi che sotto le travi a vista Fortunato stesso rivivesse per tutti gli anni a venire. Le sue opere erano ormai disseminate per il mondo, acquistate nelle aste internazionali, esposte, persino copiate tante volte, ma Diabolicus lei avrebbe preteso rimanesse lì: lì doveva campeggiare l’autoritratto del suo uomo, quello col volto fatto di spicchi squadrati, un po’ montanaro del Trentino con gli scarponi ai piedi, un po’ intellettuale newyorkese coi grattacieli a guardargli le spalle, la matita in mano e lo sguardo assorto in atto immancabilmente creativo. - ‘Geometrie più razionali, architetture ortogonali, spazi essenziali. E poi ci vorrei dentro anche tubi, anche ingranaggi, il segno dei processi industriali. No, no e no, Rosetta’. - ‘Hai ragione, Fortunato: se il museo dovrà essere anche casa, è giusto che ti rappresenti. Punto dopo punto. Prova però a immaginarlo come uno spazio nel quale ti potresti reinventare, come tante e tante volte hai fatto. Falla diventare un tuo nuovo manifesto. E se vorrai scriverlo con me, sappi che io non sono ancora stanca e non ho timori di sorta’. E così di fronte a lei, indefessa promotrice e musa bellissima e defilata come solo le donne dei visionari sanno essere, Fortunato aprì la porta di legno coi chiavistelli e per una volta le parole sovraccariche di erre lasciarono spazio a geometrie musicali un più liquide. Il primo mattone della Casa d’Arte Futurista Fortunato Depero veniva posto abbassando di due toni la cacofonia dissonante del Maestro: il restauro di una vita poteva finalmente iniziare.
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