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MuSe - Museo delle Scienze di Trento
Benedetta Quaiatto
22 Novembre 2019
La balena bianca
In una città ai piedi delle Alpi, in una terra popolata da orsi, meleti e viti esiste un museo di magnifica fattura, che si innalza alto e leggiadro: è il MuSe. Ho sempre amato poter fare un tuffo nel passato, fin da piccola i miei genitori mi portavano spesso a castelli, decisamente numerosi in Trentino. Mi hanno sempre affascinata i quadri delle principesse pingui e di signori monocoli, dall´aria tediata. In fondo, se ne stavano lì, appesi tra tende di broccato e cannoni, guardandomi passeggiare nel ricordo dei loro antichi fulgori. I musei di scienze naturali invece non avevano mai destato il mio interesse. Finché nel 2013 non arrivò Enzo Piano a Trento e a poco più vent’anni mi costrinse a ricredermi. Ciò che colpisce della sua opera, il MuSe, è l’utilizzo del vetro. La struttura di cristallo è altissima, di dimensioni geometriche quasi a voler imitare le vette chiarissime delle Dolomiti. Se ne sta, da un lato, placido e gagliardo tra l´Adige e il palazzo estivo dei Principi Vescovi e, dall’altro, tra le montagne verdeggianti. La mia prima esperienza da visitatrice è stata al limite dell’onirico: un ricordo che ancora oggi conservo gelosamente, come quello dell´odore di fumo delle sere autunnali. Al di sopra dell’ingresso, stagliati a imbuto, come in un sussidiario delle medie sul Paradiso dantesco, animali di ogni foggia e dimensione: camosci saltellanti, cervi maestosi, volpi color carminio, linci bianchissime e sinuose che si spostano a passo felpato a venti metri di altezza; e poi aquile, passeri, civette, gufi e altri volatili e più li osservo, più penso che finirò per cadere a terra, se non abbasso gli occhi e non faccio rifluire il sangue al cuore. Ma è lei, la regina incontrastata di questo cielo racchiuso da finestre: lo scheletro bianco di una balena. E se fosse stata bianca anche lei? Chiamatemi Ismaele. In un altro piano, più in alto della balena, mi imbatto in due occhi umidi e attenti, color nocciola proprio come i miei: sono gli occhi di una donna del Neolitico. Peccato che non siano reali anche se la tecnica in resina li ha resi tali. Questa statua che sembra in carne ed ossa ha le mie stesse rotondità, gli stessi seni, gli stessi capelli, la stessa impressione un po´perplessa e un po´stupita di qualcuno che incontri per caso dopo anni di assenza. Mille anni e ancora altri mille, come i baci di Lesbia, ma non siamo poi cambiati così tanto. Mutata la società e la tecnologia, forse, ma non i sentimenti. Le lacrime di una donna dell’età del bronzo sono le stesse lacrime di una donna del ventunesimo secolo. La risata di un bambino è rimasta la stessa, così come le storie che amiamo. Davanti a questa mia lontana cugina di resina non posso che domandarmi quali storie ascoltasse davanti al fuoco. Cosa raccontavi a questo tuo bambino paffutello di fianco a te? Borges ha scritto che esistano solo quattro tipi di storie al mondo, le quali poi vengono adattate e modificate da sempre: un ritorno, una ricerca, un assedio a una città e il sacrificio di un dio. Un ritorno, dalle vette alpine a un lago, come quello intrapreso da Ötzi, la mummia del Similaun esposta a Bolzano; un assedio, quello inflitto a una città a causa di una donna e della sua bellezza. Una ricerca: quella di un amore tra due esseri umani, un bacio scambiato sotto le stelle, rimaste quasi immutate, da quando l´ombra di questa mia cugina scomparsa camminava sul nostro pianeta. Tutto il museo mi racconta storie, quella di Ismaele, quelle dei primi uomini, quelle locali del re dei nani Laurino, le avventure dei primi alpinisti. Un museo di scienze naturali che narra racconti, brevi e lunghi, felici e tristi, storie di animali fantastici e spaventosi, di persone vive e morte, ma sempre con noi. Cosa potremmo essere senza i grandi racconti tramandati da focolare in focolare? Non ci sarebbe stato Abramo, non ci sarebbe stata Atlantide, non ci sarebbe stata Roma fondata da un bambino nutrito da una lupa. Si scrive che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, ma la balena scheletro vorrebbe ricordarci che siamo fatti anche di ammassi di cellule destinate al decadimento; e dopo tanto salire su per gradini e gradini di questo museo infinito, oltrepassando scheletri e impronte di dinosauro, DNA, buchi neri, dolomie e ghiacciai, finalmente sono sulla terrazza e davanti a me ho solo le mie montagne e il cielo che si tingono di rosa. Non siamo fatti di sole cellule e sogni: siamo storie, e i musei come questo rappresentano i nostri libri, da tramandare di generazione in generazione.
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