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Galleria Borghese - Roma
Chiara Torrisi
25 Novembre 2019
Punti di vista
Era un agosto strano, almeno pensando a quelli di adesso. Un agosto durante il quale Roma si era svuotata, abbandonata dai romani in fuga per le vacanze di Ferragosto. I turisti c’erano ma in quei grandi spazi deserti quasi non si notavano e si poteva passeggiare tra Piazza San Pietro e Ponte Sant’Angelo col passo lento di chi ha il naso per aria, perso tra gli angeli di marmo e il pigro azzurro del cielo. Villa Borghese non faceva eccezione e abbiamo avuto il privilegio di girare per le sale libere dalla folla come se avessero aperto il museo solo per noi. In questa villa seicentesca che è un capolavoro lei stessa, ricca di affreschi e immersa in un parco magnifico, si concentrano opere di Caravaggio, Canova, Bernini, Tiziano. Dopo l’ingresso è la Paolina Borghese di Canova ad accogliere il visitatore e più avanti a incantarlo saranno la grazia della Dama con liocorno di Raffaello o la luce che nel San Girolamo di Caravaggio fa risaltare il teschio e il drappo bianco, in contrasto con il buio che inghiotte il rosso scuro del mantello che avvolge l’anziano santo. L’incontro che mozza il fiato però per me è avvenuto nella Sala 3, con la terza opera, così all’inizio del percorso che mi ha colto impreparata. Al centro della stanza su un alto basamento che costringe il visitatore ad alzare la testa si trova l’Apollo e Dafne di Bernini. Sono rimasta sulla soglia, impietrita da una sensazione che non mi era chiara e che ancora oggi dopo anni cerco di spiegarmi senza riuscire ad afferrarne davvero l’essenza. Non è solo la bellezza pura della scultura a cui le parole non riescono a rendere onore, il movimento ascendente dei corpi e la loro rotazione che costringe il visitatore a girare ancora e ancora attorno al dio e alla ninfa, senza riuscire a staccarsi dall’orbita nel quale è stato risucchiato. Dopo aver esplorato la scultura da ogni lato e aver lasciato che gli occhi si riempissero delle venature del legno che stringe i piedi di Dafne e del drappo sospeso nell’aria che si gonfia sulla schiena di Apollo ho avvertito un senso di disagio; meglio, di ingiustizia. Nel mito narrato da Ovidio Apollo deride Cupido per il suo arco e le sue frecce, che considera armi inutili in mano a lui; il dio dell’amore si infuria e si vendica lanciando due frecce, una destinata ad Apollo e una a Dafne, ninfa dei corsi d’acqua. La freccia che colpisce Apollo gli fa perdere la testa per la bella ninfa, che però lo fugge, trafitta dalla freccia che provoca odio anziché desiderio. Qui comincia la storia raccontata dallo scalpello di Bernini. Ogni angolazione riserva una visione diversa delle due figure, come una storia raccontata con un punto di vista che oscilla continuamente. Apollo corre e raggiunge Dafne, che si contorce per sfuggire a quella mano che il dio posa sul suo fianco. Dal lato sinistro il suo sembra un gesto gentile, la mano poggiata con delicatezza tra la pelle e la corteccia che già inizia a racchiudere la ninfa dentro di sé, ma da davanti sembra agguantarla. Non sono dita che entrano nella carne come nel Ratto di Proserpina della stanza dopo, qui non c'è la legge del più forte che trascina la dea della primavera negli inferi per volere di Ade, che nemmeno guarda il volto disperato di lei. Apollo invece guarda Dafne mentre sotto le sue dita lei diventa albero e il volto perfetto del dio non è sfigurato dalla rabbia, ma nemmeno dal dolore: i lineamenti distesi sono anche distaccati, indifferenti alle urla che escono dalla bocca spalancata di Dafne, perché lui è il dio e si prende quello che vuole. Dafne invece è trascinata in un amore non corrisposto che le appare come un incubo, corre via, ma non può essere più veloce del dio che le è addosso nel momento in cui la sua preghiera è esaudita e il padre le offre la salvezza facendola nei fatti morire, ridotta a una pianta di alloro. Eccolo il senso di ingiustizia che avevo avvertito, l’inutilità di quella sofferenza. Il gioco crudele degli dei aveva trasformato l’amore in sopraffazione, distruggendo la vita di una giovane che per sfuggire alla violenza poteva solo chiedere al padre di porre fine alla sua vita. Tutto a causa di una vendetta personale, dell’arroganza di Apollo che disprezza perché non capisce e così viene punito, della crudeltà di Cupido che non si cura del dolore che crea pur di ottenere soddisfazione per il suo orgoglio ferito. Ma la storia sarebbe potuta andare diversamente, come ci ricorda la scultura che riserva una narrazione diversa a seconda del punto da cui la si guarda. È tutto quello che poteva essere e non è stato, versioni diverse di una stessa storia che possiamo solo immaginare, rimaste imprigionate nel marmo bianco che ha raccontato quella più tragica, dalla quale escono tutti sconfitti. Solo Cupido ottiene la sua rivincita, proprio lui che rimane fuori dalla scena, meccanismo che dà il via a tutti gli eventi e che subito sparisce. Ho girato ancora qualche volta attorno alla scultura per definire quello che sentivo e che è ancora diverso da quello che descrivo adesso, dopo anni. Avevo avvertito tutta la forza della tragedia, anche se l’opera di Bernini è elegante, movimentata senza essere agitata o istericamente disperata. La velata tristezza che trasmetteva la scultura andava di pari passo però con lo stupore per quello che l’artista era riuscito a fare, tirando fuori la bellezza dalla tragedia grazie al suo scavo nell’essere umano. Dopo un’ultima occhiata alla tormentata storia di Apollo e Dafne ho varcato la soglia della stanza successiva. E la visita è continuata, in sale vuote di gente e così piene di umanità.
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