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MAUTO - TORINO
Giorgio La Rocca
26 Novembre 2019
MAUTO PRIMA E DOPO
La prima volta che ci sono stato c'era ancora la Monorotaia. E l'illusione di un futuro moderno, forse felice. Eppure, al di là della facciata quasi brutalista, regnava l'antico, freddo e imperturbabile distacco piemontese. Gli improbabili tricicli a scoppio, il pachidermico calderone a vapore di Cugnot e le auto dai nomi nobili ed esotici - De Dion-Buton, Panhard & Levassor, Isotta Fraschini - che per anni hanno occupato le mie fantasticherie, erano allineate in due lugubri file perfettamente parallele: statiche, immobili, morte. Come buttati giù di malavoglia da un redattore di necrologi a cottimo, i laconici cartelli fornivano il minimo sindacale di informazioni: nome, anno di produzione, motore, cilindrata, cavalli. E basta. Non ti veniva neanche da chiederti chi le aveva possedute e guidate. Dove erano state. Quali strade e quali storie avevano percorso. Perfino la tracotante Itala trionfatrice del Raid Pechino-Parigi e la più fantastica automobile mai costruita, la Fiat Turbina del 1954, erano coperte da un ineffabile velo di polvere e di rassegnazione. Uscivi dal museo come dalla chiesa alla domenica, reprimendo un sospiro di sollievo, Eri stato bravo. Non avevi fatto domande sciocche. Avevi camminato in punta di piedi e, soprattutto, non avevi toccato niente. Sì, papà, mi è piaciuto. se ci voglio tornare? non lo so. Ma ci sono tornato. Quasi cinquant'anni dopo. Giusto il tempo medio italiano per ristrutturare qualsiasi cosa. Le auto erano esattamente le stesse. Io ero molto diverso, forse perché accompagnato dai miei due nipotini gemelli di sette anni. Colore, velocità, emozione, rombo, che missile! Quando ci torniamo? Ora sapete perché ci dovete andare.
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