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Palazzo Abatellis - Palermo
Alessandro Ronchi
27 Novembre 2019
Trionfo della Morte
I musei si possono dividere almeno per due. Ci sono le grandi collezioni assemblate da principi, re, imperatori e papi a propria maggior gloria e, divenute autonome, continuamente alimentate fino a trasformarsi in diorama della storia dell'arte e dell'uomo occidentale, dove tutti i Grandi sono rappresentati da capolavori. Ci sono poi musei piccoli che raccontano storie specifiche: di un individuo, di una comunità, di un territorio o di un sito. Palazzo Abatellis ha qualcosa di entrambi: è una collezione regionale che espone opere di artisti autoctoni o transitati in Sicilia, come Van Dyck. Non è una grande collezione che trascende luoghi e epoche eppure possiede caratteri di completezza e riassunto. Si trova in un palazzo mutante: prima capolavoro gotico, poi monastero, quindi edificio bombardato, infine adattato da Carlo Scarpa in una delle sue impeccabili macchine museali. La dottrina Scarpa non prevede solo dettagli architettonici sublimi e colpo d'occhio razionale; anche un allestimento zen che evidenzia ogni pezzo - mai troppi pezzi - e gli lascia il suo spazio. A Palazzo Abatellis ci sono capolavori. Innanzitutto il trecentesco Trionfo della Morte che Scarpa ha pensato fulcro espositivo studiando una vista a cannocchiale, che induca a guardare sia l'insieme sia i dettagli, e un doppio passaggio su diversi livelli. Ci sono i busti rinascimentali, come il Ritratto di giovinetto di Antonello Gagini, ambientati su pareti che sembrano quadri suprematisti. C'è ovviamente Antonello da Messina e l'Annunziata che, con una piccola forzatura, si può vedere femminista, unica Madonna antica, a memoria, che legga piuttosto di esistere in funzione di angeli o Gesù bambini. È anche qualcosa di insolito e quasi unico a colpire durante la visita a Palazzo Abatellis. Al primo piano, una lunga teoria di dipinti, quasi tutti di soggetti religioso. Ci si ferma sui capolavori ma la maggior parte, di qualità non eccelsa, si scorge passando. Non impressionano i singoli quadri, spesso convenziali e a volte sgraziati, quanto lo stato di conservazione. I capolavori (Antonello e Van Dyck oppure Bronzino, Mattia Preti, Ribera) sembrano dipinti ieri come tutti i quadri importanti, sottoposti a cure continue, invece per i comprimari non c'è traccia di restauro, non recente quanto meno. I colori appaiono sporchi o deteriorati oppure addirittura caduti da aree di tela o tavola tornate a nudità. È un senso diacronico della corruzione, della decadenza che manca a tanti musei impeccabili il cui peccato è l'eccesso di restauro, come se il tempo non fosse una variabile universale. Vediamo un crocifisso quattrocentesco come è davvero: la somma (o sottrazione?) di un'opera umana con i secoli. L'eccezionalità di Palazzo Abatellis, oltre le intercapedini di Scarpa e Antonello da Messina, è l'esperienza onesta, complessa, radicale oltre che concettuale: perché il Trionfo della Morte sia fulcro espositivo lo capiamo pienamente al secondo passaggio, quando riappare tra le tele corrose. E sembra giusto, corretto che accada a Palermo, non lontano dalla Cripta dei Cappuccini, nel capoluogo di un'isola che ha sempre dimostrato un sensibilità e un gusto particolare per la morte.
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