"Un intreccio di parole"
Un intreccio di parole
La neve cadeva copiosa sulla città di Milano quel sabato sera. Per le strade del centro un viavai di carrozze: i nobili di tutta la città si stavano dirigendo al Teatro alla Scala per la prima rappresentazione del ‘Nabucco’ di Giuseppe Verdi.
Poco lontano dalla piazza del teatro, lungo quella che oggi è chiamata via Manzoni si scorgeva un’imponente villa nobiliare. Guardando verso l’alto si poteva intravedere una grande finestra oscurata da un pesante tendaggio color porpora: la stanza di Rosina Trivulzio, protagonista della storia che sto per raccontarvi.
-“Tira!”. Anna tirò, mentre Rosina tratteneva il fiato.
- “Ancora!”. Il magnifico abito rosso fiammante era perfetto per quella serata alla Scala, così l’aveva voluto Rosina quando se lo era fatto confezionare su misura per l’evento, ma certo per indossarlo ci volevano non pochi sacrifici!
Compiuta l’ardua impresa, Anna curò a Rosina anche l’acconciatura con i boccoli che le piacevano tanto.
Si sentì bussare alla porta della camera da letto: ”Avanti!” intimò Rosina mentre si studiava allo specchio. Un viso segnato dalle rughe e dal tempo il suo, occhi spenti ma ancora pieni d’amore nei quali si poteva leggere il dolore di una vita infelice, un’immagine riflessa che ormai faceva fatica ad accettare ma che non cessava di curare col massimo riguardo.
Il volto barbuto di Gian Giacomo fece capolino dalla porta semiaperta: ”Madre, la carrozza è arrivata. Siete pronta?”.
- “Certo, caro! Che sbadata: non mi sono accorta che si è fatto tardi”.
Mentre si dirigeva verso la carrozza, Rosina si accarezzò il collo, ma mancava qualcosa.
- “La mia parure! Come ho fatto a dimenticarla? Figliolo attendi qua ancora qualche minuto; non posso andare a teatro senza gioielli!”.
- “Ma madre, lascia che vada a recuperarli una cameriera!”.
- “Non sia mai! Lo sai bene, figlio mio, che non lascerei la parure a nessun altro se non a me e a…”.
Un momento di nostalgia colse la povera Rosina: “… e a tuo padre…”.
Tornò in camera e nella foga di cercare orecchini e collana, l’occhio le cadde sulla parure da lutto.
-“Oh cara parure, tu che mi hai accompagnato in tanti momenti difficili e che mi riporti alla mente persone a me care che ora da lassù vegliano su me e su Gian Giacomo.
A breve sarà il decimo anniversario della morte del mio amatissimo Giuseppe1 e per l’occasione ti indosserò nuovamente. Provo ancora tristezza se ripenso a quanto poco tempo ho potuto passare con mio marito: io sposa giovanissima e lui già in là con gli anni.
E che dolore ripensare a Matilde, arrivata dopo solo un anno dalle nozze e mancata prematuramente! Fu per questo lutto che ti indossai ogni giorno per molto tempo. Gian Giacomo è tutto ciò che mi rimane, l’unica felicità a cui posso ancora aggrapparmi”.
Sentendo tessere un tale elogio, spinti da un’incontrollabile gelosia tutti i cammei della parure che la padrona stava cercando rimproverarono la povera Rosina di essere ingrata, di non apprezzare la loro bellezza e di sottovalutarne il valore.
Atena, che fra tutti spiccava per saggezza ed eloquenza, prese la parola:
- “O cara padrona quanto mi duole sentire tali parole nei confronti della sorella terribile che sempre con un velo nero ricopre l’esistenza, che non celebra la vita ma la morte.
O Rosina, non dimenticarti di colei che al contrario dipinge il quadro della tua vita con una tavolozza di colori e apprezzane tutte le sfumature, non lasciarti offuscare dalla nostalgia del ricordo, non voltarti, non rimpiangere il povero Giuseppe, rammenta piuttosto tutti i momenti felici. Non lasciare che di lui ti rimanga solo l’ultima immagine.
O cara padrona, intona un inno alla vita, esaltane la bellezza, impara a riconoscerla, a difenderla e a preservarla”.
Ma a quel punto Medusa intervenne adirata: “O perfida Atena, come osi parlare di bellezza dinanzi a me? A causa tua “mi fu tolta la mia bella persona”; fu la tua irrefrenabile invidia a travolgere la mia vita, io non avevo colpe; fu Poseidone a sedurmi e a portarmi nel tuo tempio, e tu incurante del mio destino mi trasformasti in un’orribile creatura.
O Atena occhio azzurro, come puoi tu dichiararti paladina della bellezza, insegnare a riconoscerla e a proteggerla, tu che l’hai distrutta, spinta da un riprovevole sentimento di gelosia?”
Ma Atena proruppe indignata: “O folle, tu che profanasti il tempio a me consacrato, tu che ti unisti con Poseidone all’insaputa di tutti, tu che hai peccato di vanità, hai la sfrontatezza di biasimare me che ho agito correttamente? Mi accusi di immoralità, di invidia, perché ti ritenevo troppo bella? O sciocca illusa, io ho rivaleggiato con Afrodite ed Era quanto a bellezza: credi forse che tu potresti competere con me?
Psiche allora, stanca di rimanere dietro le quinte, sottrasse la scena ad Atena: “O sorella Medusa, ti compatisco. So cosa significa essere puniti ingiustamente dagli dei, che spinti dal terrore di perdere il controllo su noi umani, giungono a compiere atti scellerati. Anche a me è successo: l’aurea Afrodite voleva che io mi innamorassi dell’uomo più brutto della Terra e incaricò il figlio Amore di esaudire la sua richiesta, ma Amore sbagliò mira e colpì se stesso. Quando Afrodite venne a sapere della nostra passione, scatenò la sua ira su di me, mi sottopose a numerose prove che superai eccetto l’ultima, e così mi ritrovai negli Inferi e se non fosse stato per il mio amato sarei ancora avvolta dalle tenebre della morte”.
Atena inferocita replicò un’ultima volta: “O Psiche, hai dimenticato di menzionare la tua colpa: hai oltrepassato il limite imposto dagli dei, hai guardato il volto di Amore e hai aperto l’ampolla che Proserpina ti aveva donato e che dovevi tenere chiusa. D’altronde voi uomini non sapete accettare i vostri limiti, siete spinti dal desiderio, dalla curiosità, dalla sete di conoscenza; voi uomini non vi fermate alle Colonne d’Ercole, le oltrepassate”.
Rosina a quel punto si sentì in dovere di intervenire per placare la tempesta: “Ragazze, non è necessario fare tutta questa confusione, non serve riportare alla memoria le tragedie del passato né rinnovare accuse reciproche. Ricordate il patto che avevate stretto con Castellani quando lui vi riportò in vita scolpendovi? Prometteste di seppellire i rancori, lasciandovi il passato alle spalle.
Non cadete nel mio stesso errore, richiamando alla memoria ciò che è stato, pensate piuttosto a ciò che sarà o che potrà essere.
Inoltre sapete quanto io tenga a voi: non avete motivo di essere gelose della vostra cara sorella, che è per me altrettanto importante… Basta, prepariamoci o faremo tardi”.
Gian Giacomo intanto si stringeva nel cappotto e fissava impaziente il portone sperando di veder comparire sua madre. Il freddo si era fatto ancora più pungente e la neve continuava a cadere a fiocchi densi e candidi, ricoprendo ogni cosa. Alla fine si decise ad andare a chiamarla.
Salì le scale che conducevano al piano superiore e sentì un mormorare indistinto che proveniva dalla camera da letto di Rosina. Bussò alla porta ed entrando sorprese sua madre con la parure in mano.
- “Madre, cosa state facendo? Dobbiamo andare, il cocchiere aspetta e se non usciamo immediatamente, perderemo l’inizio dello spettacolo!”.
Rosina guardò confusa prima il figlio e poi la parure e rispose: “Ma certo figliolo, perdonami, non trovavo i miei amati gioielli”.
Rosina, dopo aver indossato velocemente collana e orecchini, seguì il figlio giù per lo scalone e salì sulla carrozza, Gian Giacomo prese posto accanto alla madre e si voltò ad osservarla, la donna era impassibile, le mani in grembo, lo sguardo volto in avanti.
La carrozza partì con uno schiocco di briglie che sapeva di vita.