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Museo Nazionale Romano - Palazzo Altemps
Beatrice Cinti
1 Dicembre 2019
Un'isola nel cuore di Roma
Visitare Palazzo Altemps è un’esperienza straniante: le dimensioni dello spazio e del tempo si alterano e prendono la forma del tuo respiro e dei tuoi passi, nel ritmo lento necessario ad attraversare ad una ad una le sale. Era di luglio quando, per la prima volta, sono entrata in questo museo: Roma invasa – come sempre – dai turisti, un caldo soffocante, il desiderio di riempirsi gli occhi della bellezza che questa città per certi versi esibisce con superbia, per altri nasconde agli occhi dei più. Sono entrata a Palazzo Altemps con una certa dose di incoscienza: non avevo preparato la visita, non avevo sfogliato il catalogo, non ne avevo considerato i tesori. Era sufficiente sapere che lì avrei trovato il Trono Ludovisi, l’enigmatico rilievo magnogreco che raffigura la nascita di Afrodite dalla spuma del mare: il corpo pudicamente celato da un drappo, che non nasconde però il busto, avvolto in un leggero chitone bagnato, la cui trasparenza esalta la virginale bellezza della dea. Le rassicuranti braccia delle due fanciulle che la sorreggono contrastano con i panneggi delicati che, leggerissimi, lasciano intuire le forme sottostanti. L’ho trovato: la vista non poteva deludere e non lo ha fatto. Ma il percorso disegnato per arrivare fin lì ha preso da subito un altro significato. Il museo era pressoché vuoto: il vociare scomposto, l’inesorabile selfie, l’andirivieni incessante erano rimasti fuori. Dentro c’era un altro tempo, più umano, in cui soffermarsi a guardare le opere, potere tornare anche sui propri passi per ammirare un particolare che era sfuggito, rileggere nei gruppi scultorei un mito riaffiorato alla memoria. Forse più che altrove a Palazzo Altemps si comprende il gusto che ha ispirato il collezionismo del primo ‘600: l’amore per l’antichità coniugato al desiderio di integrità dell’opera, che ha indotto i proprietari a commissionare un restauro spesso piuttosto invasivo delle statue riemerse dal ventre fecondo di Roma. I grandi artisti barocchi, chiamati ad imprimere su questi marmi la propria personale rilettura dell’antico, li hanno resi delle vere e proprie “macchine del tempo”. Osservandoli siamo proiettati in una molteplicità di piani temporali, che dal nostro presente ci accostano al lontano passato del mito e dell’originale perduto, alla risemantizzazione compiuta dalla copia romana, allo spirito di esibizione dei collezionisti aristocratici di età moderna. Tutto ciò crea in chi guarda smarrimento e meraviglia. Ecco, allora, l’Atena Parthenos con il volto che ha pensato per lei Alessandro Algardi, di una dolcezza infinita, che non si sa come possa sormontare il terribile Gorgoneion sul petto, un viso così lontano dall’algida fierezza che doveva esserci nella statua fidiaca. Poi il Marte a riposo, languidamente seduto in atteggiamento contemplativo: ha deposto accanto a sé gli attrezzi del mestiere, lo scudo e l’elmo, e regge distrattamente e svogliatamente la spada con le mani raccolte attorno al ginocchio. È la dissonanza magistralmente prodotta dall’intervento di reintegro compiuto da Gian Lorenzo Bernini ad attrarre lo sguardo: il piede percorso da un’incredibile energia vitale, l’elsa della spada che non è più un terribile strumento di guerra ma, contro ogni aspettativa, attraverso la teatrale deformazione di un volto, sembra irridere la propria funzione. Lentamente, pieni gli occhi di bellezza, proseguo e capisco che questo museo non ha finito di stupirmi. Dalla soglia mi affaccio su una sala più grande delle precedenti, esito ad entrare perché i miei occhi sono attratti dal gruppo scultoreo che si erge imponente al centro dell’ambiente. Un nudo eroico colto in un’incredibile torsione, che, da questa angolazione, nasconde il volto del protagonista. Mi avvicino. La perfezione delle membra, la muscolatura contratta; la tensione anima nel profondo questo giovane, che le ciocche dei capelli e i baffi rendono riconoscibile come un Galata. Viene colto nell’attimo in cui, evidentemente sconfitto, sta immergendo la spada nel petto, dall’alto verso il basso, in una posizione che costringe non solo a ruotare il capo lateralmente, ma anche ad alzare e piegare il possente braccio destro. Il braccio sinistro è invece disteso a sorreggere il corpo della compagna, che forse lui stesso ha appena ucciso, perché non finisse schiava nelle mani del nemico. Il corpo della donna è accasciato in una posa scomposta, il soffio vitale l’ha appena abbandonata, è rimasta impressa sul suo viso un’espressione dolente. Lui no. Lo sguardo fiero, la consapevolezza di un gesto definitivo, ma inevitabile: si è battuto per la libertà e ora vede approssimarsi il momento in cui ne sarà privato. A commentare e a suggerire una lettura di questa spettacolare opera c’è lì accanto un’altra meraviglia: il Grande Ludovisi, il sarcofago con scene di battaglia tra Romani e barbari. Certo torna alla mente il memento di Anchise, il quale affida ad Enea le parole che racchiudono la missione del popolo che da lui discenderà: parcere subiectis et debellare superbos. Non solo gli uomini sconfitti e sbeffeggiati dall’inesorabile esercito romano ritratti sul sarcofago, ma anche la fierezza del Galata colto nel suo gesto estremo, fanno comprendere la vera natura del dominio romano e di qualsiasi potere che trovi nell’imperialismo e nella sopraffazione le ragioni della propria esistenza. E allora ecco tornare alla mente le parole di Calgaco nell’Agricola di Tacito: “rubare, massacrare, rapinare chiamano con falso nome impero, e dove fanno il deserto, lo chiamano pace”. In un’estate romana questo museo-isola mi ha permesso un’esperienza straordinaria: attraverso la bellezza mi ha porto da annodare i fili che ci legano al passato.
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