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KRÖLLER-MÜLLER MUSEUM DI OTTERLO – PAESI BASSI
Jania Sarno
1 Dicembre 2019
Foresta con museo
L’Olanda ci sfila intorno, terre basse che si perdono come fra le dita di un grande delta di poltiglia alluvionale; l’Olanda affacciata su un estremo di mare, nutrito del vento degli antipodi: industre e monotona, l’Olanda. Sarai tu, van Gogh, lo sciame d’api lucenti che nel grigio m’attendo di incontrare: sto venendo a cercarti. Certo andrò anche ad Auvers sur Oise, un giorno; mi si spanderanno davanti le gialle distese di Arles. Ma devo iniziare dalle prime immagini che avesti del mondo, dagli elementi fondanti della tua visione. Olanda 2002. Parleranno i luoghi. Distese di granoturco, sotto un cielo sbiadito, basso come la terra – bussola a nordovest, verso Nimega; poi Arnhem, appena un pugno di chilometri fra città e città, “riserva naturale con museo moderno”, recita la guida: ottimo, per una tappa – la Gheldria non è grigia ma verdissima, nello spegnersi del giorno estivo, con pascoli e ciclabili e piccole strade. Ci accampiamo nella foresta del Veluwe, sotto la mezzaluna nelle cui pieghe saltano le lepri. Mai avrei pensato che il mio primo incontro con van Gogh, in questo viaggio, sarebbe avvenuto non nella sontuosità celebrativa del Rijksmuseum di Amsterdam, ma in una nostra tappa casuale. De Hoge Veluwe. Riserva naturale, con museo. Dieci chilometri in bicicletta, un lungo silenzio scandito solo dallo sciacquio della borraccia e dal ritmo del pedale, in sottoboschi di abetaie e querceti e poi d’improvviso brughiere, pallide fioriture d’erica e di cardo, in mezzo all’ondeggiare delle gramigne e al disegno nudo delle dune – strano, questo Sud di un grande Nord: questa disseccata dimensione di meridione – ne ripeto il nome, fra me e me, pedalando, come un incantamento: Veluwe, hoge, Alto Veluwe; poi di nuovo la vista del cielo si chiude, e torna a snodarsi, il sentiero, sotto una cupola di chiome – il ritmo quasi ipnotico dello sguardo e del moto, quando, di colpo, un varco aperto, un balzo, uno stupore: in una grande radura di prato, qui un landscape di Piet Slegers, là una scultura di Rodin; e una costruzione bassa, allargata, seminascosta nella vegetazione. È il museo di cui parlava la guida: il Kröller-Müller Museum di Otterlo. Non avevo mai saputo della sua esistenza: solo quel cenno, generico, nella guida, cadutoci l’occhio per caso, lungo il nostro poco preparato viaggio in camper dall’Italia fin qui. Il pittore che cercavo mi è venuto incontro: sto per visitare, in anticipo e a sorpresa, una delle maggiori collezioni al mondo di tele e disegni di van Gogh. Anni Dieci, Venti del Novecento: mentre l’imprenditore Anton Kröller persegue, della sua classe, le magnifiche sorti e progressive (ma, da illuminato, acquista anche il vasto paradiso arboreo dell’Alto Veluwe per sottrarlo alla devastazione industriale), la moglie, Helene Müller, con amore e acume va componendo la collezione d’arte familiare: quadri, disegni e sculture, alcune delle quali per un giardino all’inglese da disegnare nella foresta, creando un raffinato intaglio tra l’impero dell’uomo creatore e quello del creatore Dio. Dal suo consulente Henk Bremmer, le era giunto il suggerimento dell’ancora controverso artista di nome Vincent van Gogh. Entriamo nell’edificio. Strano, questo sottofondo di scalpiccio museale con audioguide, arrivandovi non dalla metropolitana di una capitale ma dall’aroma di grilli e di timo di una brughiera – un’occhiata distratta alle prime sale: statue varie, fra cui una specie di dea madre, una Rebecca di Ossip Zadkine; e poi Mario Negri, Henry Moore – non sono concentrata, forse vorrei tornare a osservare i cammini lucenti dei coleotteri fra le orme dei caprioli, sulle dune... quando, improvvisa, laggiù contro il fondo della sala, nera scheletrica inconfondibile, assorbita nella propria sottigliezza quanto traboccante in tutto lo spazio che l’accoglie, una statua, col suo vuoto d’orbite scavate e smarrite, in marcia proprio verso di me: un Giacometti! Un uomo che cammina. Cado seduta: Alberto Giacometti, il mio scultore! Un suo uomo, in solitaria marcia, anche qui! Entra un gruppo di visitatori, attornia le opere, cola dentro la sala: ora l’uomo di Giacometti cammina fra le persone, alto al pari, solo più magro e più nero; e loro lo ignorano, non lo trattano da scultura, ma disbrigano l’incombenza del visitare solo con le statue che si comportano come tali, bloccate in una postura che le distingua e separi dall’osservatore; soltanto un signore, giratosi come avvertisse qualcuno alle spalle, trasalisce allo scorgere la sagoma ossuta; si volta di nuovo verso quella strana creatura di bronzo dai grandi piedi che s’è intrusa alla vita dei vivi, e continua a voltarsi, mentre esce verso la sala successiva. Mi riscuoto dal colpo lentamente e mi alzo, mentre la scarna silhouette giacomettiana prosegue la sua marcia nel ristabilirsi del vuoto in sala, con la convinzione caparbia della sua metafora. Riprendo a guardare qua e là: ecco un paesaggio del primo Mondrian, una Marina di Donburg del ‘09, poi le varie composizioni di linee e colori 1913-1919, grigio rosa giallino, disperazione e oggettività, a un tempo; da Novecento virulento e conclusivo, conclamatosi come un Titano – poi, l’insolenza ottonata di un altro uomo che a sua volta procede, ma ...come diverso! È quello di Boccioni, eutrofico di curve e spessori da culturista, ancorché le linee siano frammentate; uomo che non si confonde con chi è soltanto uomo e riluce, sul suo piedistallo, preferendo porsi in modo altisonante, dall’alto delle sue forme uniche nella continuità dello spazio – eppure, lo spazio, neanche arriva a incresparlo – ecco anche una chitarra di Picasso, e una natura morta in forma di diamante di Braque. Giro nervosamente per le sale, con i loro Seurat e Signac: quel Giacometti ha fatto irruzione fra le maglie dell’attesa e le ha spanate, ha saturato d’un colpo la disarmata residenza delle emozioni – ma devo ricordarmi che sono qui per un altro grande Cercatore; che dai ricami dei coleotteri sulle sabbie che l’ultima glaciazione sbriciolò da grossi quarzi, trasportandole dal Mare del Nord fino al Veluwe, devo passare ora, senza altre diversioni, al mio van Gogh. Eccolo, eccolo! Torna il batticuore, ed è proprio per lui, anche se certo preferirei trovarmi già in un suo luogo vissuto e vero – nei paraggi del suo paese natale o in mezzo alla tristezza mineraria di Cuesmes o davanti alla “casa gialla”, se ancora esistesse, ad Arles – ma sono qua, dove ci sono “solo” quadri, raccolti nel nucleo più interno di questo straordinario museo: in mezzo alla foresta, la Galleria van Gogh. E ora, ora che sto facendo ingresso per la prima volta nella tua vibrazione preziosa, qui dove il mio sguardo sta muovendo tra i lavori del tuo primo periodo creativo, ora dimmi, Vincent... ...dimmi come non partire da quella folgore tua gialla che è insieme grano, sole e sparo; come osservarti, come osservare i tuoi esordi riuscendo a ignorare l’epilogo suicida; come riuscire a non camminare all’indietro nei tuoi giorni, nei tuoi tratti, partendo da quel punto finale, e come procedere in avanti con mente sgombra, invece: da un inizio verso uno svolgimento, che ancora contenga tutte le strade possibili. Sparo, sole e grano. E follia. Notti con i varchi di fuoco dei loro astri, notti come attraversate da una raffica che lasci fori febbricitanti sul cristallo del vetro. Sì, farò lo sforzo di cominciare da zero, come ragionevolmente propone il percorso espositivo, che muove dalla tua fase inziale: una figura femminile in bianco fra i tronchi di un bosco dai densi marroni, poi le coltivatrici di patate alla Millet – e i mangiatori, di patate, a seguire, nel semibuio fumoso di un povero interno contadino, sprofondato nelle sue ombre, nella sua imprecisione. Mi colpiscono, questi Mangiatori, rispetto al meticoloso realismo dell’altro quadro su questo soggetto, quello più noto, che so attendermi ad Amsterdam. La differenza mi pare che non stia nella maggiore indefinitezza, da pittore novello, di questo lavoro, ma nel suo spirito: lì, c’è la scena; qui, il suo ricordo: la vita che, nel momento stesso in cui accade, è già memoria e congedo. Lì gli sguardi sono vivi, orientati; qui, sono persi. Ognuno è a occhi bassi ed è come non vi sia relazione, ma un silenzio greve, che non è solo di stento e fa, del piatto, il centro; delle patate, fa essenza muta. È ragionevole che si tratti di due versioni dello stesso soggetto in fieri: questo, provvisorio; quello, definitivo. Ora, però, che ho di fronte questa tela straordinaria, che non conoscevo, mi sembra quasi che venga prima quella di Amsterdam, e questa poi. Prima, una realtà dominata e che si può narrare; poi una realtà che si svuota. Questo quadro è tuttavia più antico. Come se l’intento dichiarato dell’autore di voler dipingere con il sentimento, con la passione e con l’amore, piuttosto che con il ricorso alla tecnica, avesse fatto affiorare prima, precocemente – e non perché il tratto sia ancora imperfetto – un più profondo e interno Vero: l’impossibilità della comunicazione. E, dato che se si vuole crescere, bisogna affondare nella terra, non nelle ombre inquiete, allora, ecco il pittore approdare al vero-verosimile: ecco che l’uomo – quello che era il qualunque uomo, inchiodato alla solitudine in quanto esistenza – si trasforma nel contadino, legandosi a una condizione sociale. Mi sembrano, a dispetto della figurazione comune, due quadri diversi. Nei Mangiatori successivi ci sarà lo stento, ma non il silenzio; il piatto sarà il centro, ma formale: punto di luce, al pari della lampada, di una visione solida. Mi rendo conto che sto comunque partendo da quello sparo: da quell’atto irreversibile e terminale, nell’idillio del grano. So di quella detonazione nel giallo, so già di quei corvi in nero volo, e sto quindi camminando a ritroso, scambiando di posto l’abbozzo e il lavoro finito, il senso della direzione, il prima e il poi. Ti sento come tu fossi nel pieno Novecento, Vincent. La foresta è là fuori. Vado oltre. Tessitori, in altri interni bui dove la vita si consuma; altri Coltivatori di patate, anche, sotto bassi orizzonti olandesi dai pochi suggerimenti essenziali: pure strisce di colore, paesaggi senza descrizione, quasi astratti. Ciò che domina, è la condizione. Due Teste di contadini: una nitida, con lo sguardo acuto e diretto; l’altra, che guarda in basso e si perde, macchia di volto appena tratteggiata. Come prima, mi trovo davanti allo stesso oscillare fra una condizione sociale e quella umana in sé, alla stessa differenza nella concezione dell’immagine – lo stesso dubbio sul suo senso, il suo fine – che mi fa posizionare le due tele in una successione mia, da quella realistica a quella esistenziale. Senz’altro c’è lo stesso rapporto ambiguo con il canone del vero, con l’ambizione e l’inibizione dell’oggettività. Sono stupita di come Helene Müller, ricca sì per famiglia, ma con i mezzi di crescita intellettuale che la società permetteva a una donna, sia riuscita già solo con le prime tele dell’artista, da lei scelte e collezionate, a tracciare un itinerario così denso, a suscitare in me tante suggestioni. Era nata nel 1869. Terminano i lavori del periodo di Neuen, con la durezza delle loro visioni e il loro fondo ferrigno, olivastro, invernale. Che vita cupa e fredda, Vincent, sentivi di dover rappresentare, sorda come il cuore minerale di questo pianeta incomprensibile... quand’ecco, finalmente, il turbinio di trattini in cui esplode la luce di Arles. Devo ammettere ch’è un sollievo. Poche, qui, le tele appartenenti al periodo che van Gogh trascorse nella cittadina provenzale: come se anche Helene Müller, nel suo scegliere, fosse incline a partire dal punto d’epilogo del suicidio, piuttosto che da quella che comunque avrebbe potuto essere per van Gogh una strada possibile: la “natura viva”, nella joie de vivre scaturita dalla scoperta del Sud! Già, il Sud, l’altrove, quella sorta di europeo Giappone dove trovare il nitore, il gesto lieve naturale, il lieto colore, ma più ancora il mito di sé come artista; poi l’errore di volerlo compartire, in un cenacolo un nido una casa, con chi aveva la struttura interna ben più forte, e la baldanza per andarselo a cercare davvero in loco, il Sud del mondo, il sogno del Pacifico, e per recitare colà la sua parte d’artista senza giocarvi la ragione e la vita... Helene, dei quadri condizionati dalla drastica tavolozza di Gauguin, se ne procurò solo un paio. Poco altro, del van Gogh del periodo di Arles; quel poco altro, però, straordinario: l’apice creativo del Seminatore, che si muove tra l’effusione solare e un tripudio fiordaliso, in uno stretto tessuto di pennellate tutte colpi di gioia, dove la barriera di spighe del fondale pare salda certezza d’essere e di appartenere. È l’agitazione, la schiettezza di una risposta della natura, quella che guida le nostre mani; ed essa è spesso così forte che si lavora senza sapere a cosa si stia lavorando, e i colpi di pennello vengono fitti e rapidi come parole. Com’è lontana, in questa pianura che pur nelle forme ricorda l’Olanda, la cappa opaca del Calvinismo, delle miniere del Borinage, dell’omaggio dell’artista al Vero! Il Seminatore non è condizione contadina, alla faccia dei maestri del reale: è figura umana in sé ed è tutta terrena, in un ambiente amico, percorso e seminato con la stessa padronanza lieve di un borghese in un viale parigino o di Armstrong sulla luna. Anche l’aggiunta di una piccola casa lontana, sospesa sul pelo delle spighe, definisce quell’uomo come padrone; è sovrastato unicamente dal sole e, pur non arrivando a presentarsi frontalmente, viene verso lo spazio di vivi dove ci troviamo noi. È ora la volta dei quadri di Saint-Rémy. Sono molti. A Helene doveva piacere il turbamento sottile di questi paesaggi che, inspiegabilmente, non comunicano più gioia. Nemmeno disperazione, trovo, ancora; sì, però, una grande ambiguità. Si riaffaccia in me la sottaciuta coscienza dello sparo. Anch’io, come Helene Müller, torno a guardarti già sapendoti ferito, tu non in una delle tue possibili strade, ma al termine dell’unica strada possibile che alla fine scegliesti per te... e mi colpisce, ancora, il Campo di grano con mietitore e sole, di appena un anno successivo al Seminatore di Arles che ho appena lasciato: nello stesso tema ricorrente – il contadino solitario in movimento nel vasto della sua semina – che poco fa avevo visto da te piegato a esprimere gioia e forza vitale, sento ora, improvvisa, una crepa Come è possibile che, così di colpo, il seminatore-raccoglitore alla Millet, che nelle tue mani si era appena spogliato d’ogni connotazione di classe e di fede per consuonare col giallo grembo naturale – com’è possibile che si sia già trasformato in un’immagine della morte così come ne parla il grande Libro della Natura: in mano la sua falce, piccolo, senza volto e lontano? Eppure così è: la successione di più tele analoghe conferma il rovello che dovette accompagnare questa creazione e il trasformarsi del tòpos visivo del seminatore, fra il giugno e il settembre dell’anno ’89 – quando Parigi celebrava la massima fiera del Moderno – nell’auto-segregazione di Saint-Remy. In questo “campo di grano con figura” che ho davanti, il giallo dilaga, tracima sull’intera visione, dal grano e dal sole-cielo al muro di cinta alle coline alle case, al vestiario della stessa figuretta che vi rimane sommersa, appena distinguibile, nel suo taglio laterale, nel suo luogo decentrato, nel suo moto estraneo e chiuso lungo la direttrice orizzontale del campo visivo. L’occhio viene attratto da un nucleo di linee ascendenti che suggeriscono un covone, fermandosi al suo apice, sorta di fuoco prospettico in assoluto primo piano, inanimato. Come spesso accade, una banda divide la tela in due, creando il fondale con le cose dell’orizzonte: nei lavori di Saint-Remy, è sempre una recinzione, un’enclosure, un enclos. È quello dell’Ospedale di Saint-Paul, che protegge e imprigiona, racchiude ed esclude, definisce un discrimine fra ciò che si trova al di qua o al di là: di là ci sono cipressi, s’intuiscono strade; ma come sono distanti, invisibili, gli esseri che vi abitano! Il vero centro è quello sbarramento, muro montagna collina: quella striscia orizzontale e divisiva che potrebbe, sì, rispondere solo a un’intenzione formale, ma che vado percependo, di tela in tela, nella riproduzione ossessiva dell’insopportabile limite. Al di sopra di esso, pulsa un altro punto d’attrazione: la sfera enorme e bassa, infantile, del sole. Statico, ora, e non radiante: messo là, fermo, come posato in mezzo a un impasto d’oro che già esisteva, quasi non scaturisca da lui. Fragoroso è invece il vociare del grano, sbattuto sulla tela con spatolate che muovono la materia inerte. Così la messinscena del più grande colore del mondo, spostata per intensità dall’astro al suolo, fagocita la piccola figura umana che si sposta nel suo grembo, fuori d’ogni proporzione: uomo-insetto, minimo episodio, formica o ape che s’affaccenda nel vasto dominio degli elementi, che a loro volta – anche i più pesanti – convergono in luce, nel ritmo di quel cosmo che andrà comunque avanti, per legge propria, nei millenni, con o senza di lui. E mi chiedo: cosa sta dicendo, van Gogh? È la storia dell’uomo, quella che egli vuol far scomparire nell’atemporalità della condizione d’insetto, ape o formica, irrilevante nel ciclico evento solare, irrilevanti del pari le vicende delle società e degli stati? Oppure: vuol scagliare quel piccolo uomo-insetto nel pullulare delle cose, nella molteplicità non dominabile degli oggetti disposti fra la superficie terrestre e la volta del cielo, nella loro esistenza presuntiva, nella loro indifferenza e alterità? Come tu fossi nel pieno Novecento, ti sento, Vincent. La foresta è là fuori. Altre figure umane, nei quadri successivi: a volte ben delineate, addirittura profilate di nero, ma sempre così lontane. Forse, si potrebbe cogliere un’altra sfumatura, più consone all’epoca di van Gogh: quella dell’indifferenza che la parte di società intenta alle fruttifere cose riservava all’artista, pur essendovi artisti ben scaltri; ed egli lì, ai margini, a osservare e a spararsi – a spararsi per niente, in mezzo al grano Di nuovo una condizione, dunque, ma non certo quella contadina. Non sento come vero soggetto dell’opera quello raffigurato sulla tela, bensì ciò che ne rimane fuori: che si tratti dell’artista come osservatore e del suo stato – artista inosservato, che guarda ed esprime e soffre a vanvera, senza sapersi inserire – o dell’uomo Vincent, della sua persona, c’è sempre un “o io, o loro”, mai un “noi”. L’insistenza su quelle figurette immancabili ne fa specchi suoi: io sono qui, loro sono lì. E il semplice essere lì, che le distingue, dichiara qualcosa di me che non ci sono. La tela diventa diaframma e separazione. Prima tale era solo il muro di cinta, l’enclos; ora è l’intera opera, campo di prova della differenza: finestra della cortina che percepisco fra me e voi. Fra me e la vita. Sì, meglio, mi sparo. E, sullo squarcio del mio addome, ci fumo sopra la pipa per un po’. Vorrei che fosse tutto finito adesso. È finita l’infanzia – oh, come era, tutto, revocabile! – ma anche l’età adulta saluto. Vorrei che fosse tutto finito. Ora lo so anch’io, che mi sarei sparato; non solo i posteri, guardando ogni mio quadro. So il mio sparo; ho imboccato infine l’unica strada. Pur con un atto così imperfetto, impossibile ormai tornare indietro. Almeno, ormai conosco il mio epilogo: che sollievo. Morendo io per primo, pre-morendo alla mia morte, forse ne ho risolto il terrore. O forse, più semplicemente, questa vita è intollerabile. Le ultime tele. Sono nel turbinio delle linee, nella centrifuga delle cose: ecco i soli concentrici, come bolidi di materia stellare, sprofondati nelle loro occhiaie; ecco le nubi in vortici come soli, ma abbacinate nello sprofondo del bianco; ecco le vigne come intrichi infernali, incubi per passeri prigionieri; e le piccole figure dei simili, insieme agli invertebrati – lo sparo, lo squarcio, la febbre, lo sguardo che dal fiotto interno è soffocato; ecco le lune su covoni che dovrebbero essere in riposo – inquieti, invece, come slittanti su tapis roulants, sotto il gorgo di lineette chiare che dal cielo contagia ogni cosa, destando una ronde du Sabbat; ecco i cipressi che si ergono come cupe fiammate, destando quasi un ribrezzo, tanto denso ne è l’impasto, dentifricale, fin dentro il cielo; e ancora piccole figure, che rincasano, e persino un carretto, minuscolo, in una notte chiara che è insieme lunare e solare, notte smembrata fra due astri signori – ma lo sconvolto soffio dell’esistenza non è lì, dove l’affaccendarsi umano s’arrovella: è spostato, proiettato dal basso all’incomprensibile teatro del cielo, nei capricci degli elementi, nelle energie che se ne sprigionano, selvaggiamente – e c’è ancora l’enclos, sempre, striscia orizzontale del muro e, se non bastasse il muro, delle colline; se anche quelle non bastassero, delle montagne assurdamente celestine, che quasi occultano l’assurdo giallo-rosso della luna nel prato verdastro del suo etere Finito. Ripercorro da capo, a ristroso, il mio itinerario in questa collezione, al suo insieme di circostanze e di caso, al coro che se n’è creato, dalla foresta alle sale – grazie, Anton Kröller, dei tuoi investimenti; grazie della tua intelligente passione, Helene Müller. La vita dà un balzo, venendovi a visitare. Torno ai grilli di campo e agli aromi del prato, al ritmo del pedale, ai caprioli che stanno per mostrarsi, ai margini delle macchie, all’imbrunire. Sono nella foresta. E mi ripeto: Veluwe, hoge, Alto Veluwe; ora, anche Vincent van Gogh. Vado, raccolta nell’emozione della visita, cercando di definire a me stessa, di questo artista, una cifra finale. Ma è impossibile. È fuori dalla condivisa storia delle estetiche, da quella delle poetiche personali. Il suo stile, è fuori. È fra le orme lucenti dei coleotteri. È di chi fa le capriole fra i papaveri. Jania Sarno (citazioni da Van Gogh, The Complete Paintings, a cura di I. F. Walther e R. Metzger, Taschen, 2001, acquistato nello splendido Museum shop)
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