La raccolta di Guido
Arrivare quassù è davvero meraviglioso. Si sale per una delle poche strade bianche rimaste negli Appennini, tra i calanchi, fino a una curva che sbuca su un pianoro ai margini di un bosco, da cui si gode un panorama vastissimo sulla pianura padana. Sulla destra c'è la facciata di mattoni rossi di un vecchio capannone a due spioventi, con un alto portone di ferro e vetro. È il Museo delle Case Scomparse. Un tempo, più di un secolo fa, qui c'era il laboratorio di Tommaso Cocchi, detto Masone perché pesava più di cento chili. Era il fabbro di Santa Croce, un paese sulle colline tra Bologna e Modena.
Varcata la soglia d'ingresso, si entra in un enorme vano unico, con alte capriate di un legno quasi nero e finestroni lunghi fino al soffitto. Quando c'era Masone, i finestroni erano pieni di polvere e ragnatele e la luce quasi non filtrava, perché nessuno li puliva mai. Masone lavorava dieci o dodici ore al giorno, era l'unica cosa che gli piaceva fare. Costruiva cancelli e balaustre di balconi, recinzioni e corrimani per le scale, portoni e finestre, aggiustava gli aratri, affilava i coltelli, riparava le ruote dei carri e gli anelli delle botti. Guido Costantini, figlio del suo amico Raffaele, sin da bambino passava tutto il suo tempo libero nel laboratorio, gli piaceva guardar lavorare Masone, a volte lo aiutava, ma soprattutto adorava stare dentro quella specie di caverna strapiena di cose, di rumori, di scintille, che gli sembrava l'antro di Vulcano di cui gli avevano parlato a scuola.
Prima di morire Masone disse a Guido di occuparsi lui del laboratorio. Guido conservò gli attrezzi e le macchine, si liberò del superfluo, ripulì, sistemò. Poi andò in guerra in Etiopia, e più tardi restò con l'esercito in Sicilia per dieci anni. Quando tornò sul continente, nel 1912, si sposò, ebbe due figlie, finì la sua carriera al Distretto militare di Bologna e negli ultimi anni, quelli della pensione, trovò il tempo per sfogare la sua passione per le vecchie cose inutili, che era nata ai tempi in cui andava da Masone. Si dedicò a mettere in salvo le cose che restavano dimenticate nelle case, nelle stalle, nelle fabbriche abbandonate. Precedendo le incursioni dei ladri o dei traslocatori, anticipando l'arrivo dei demolitori, cercava di impadronirsi di mobili, soprammobili, oggetti che trovava nei saloni, nelle cucine, nei ripostigli. Erano dei furti, i suoi? Forse a volte lo erano, ma ormai tanto tempo è passato, e il colpevole – se fu tale – non c'è più, è morto nel 1933 e con lui è svanita anche la sua colpa. Ma tante altre volte Guido domandava il permesso, e incontrava i figli e i nipoti, che volentieri lasciavano che quello strano signore portasse via cose che forse loro non sapevano nemmeno dove mettere. Lui si precipitava a raccogliere dagli ultimi proprietari non solo le cose ma soprattutto i racconti delle cose, le testimonianze della vita di chi aveva vissuto là dentro: vecchie carte, pacchi di lettere, album di famiglia o anche soltanto mucchi di foto di incerta decifrazione.
Oggi la bisnipote di Guido, Elena, che vive a Milano, ha ceduto finalmente tutto al Comune di Santa Croce, per conservarlo nel museo, aperto da pochi mesi in quello che fu il laboratorio di Masone. Guido accoglie i visitatori all'ingresso del museo, in un ritratto fotografico dove veste la divisa, con tanto di sciabola d'ordinanza, quella che portava alla battaglia di Adua nel 1896. Sorride con gli occhi un poco sonnolenti, sornioni, il naso dritto, le labbra carnose, esprime una bonaria gioia di vivere ed accoglie i visitatori con la lettera che è riprodotta lì accanto, su un pannello alla parete. La scrisse alla figlia Norma un anno prima di morire, e vi descriveva il suo progetto di aprire al pubblico il vecchio laboratorio di Masone e di esporvi tutti gli oggetti che aveva raccolto, ognuno con una didascalia che ne raccontasse la storia e la provenienza. Norma continuò a sviluppare il progetto del padre, ed ampliò il suo raggio di azione, estendendolo ben oltre la zona di Santa Croce. Raccolse oggetti dalle case dopo l'alluvione del Polesine nel 1951, dopo quella di Firenze nel 1966, dopo il terremoto ad Ancona del 1972 e si specializzò in una sorta di storia sociale dei disastri, costituendo un museo che oggi racconta storie inedite e occupa uno spazio descrittivo che era rimasto vuoto perché sta al confine tra la civiltà contadina, il patrimonio industriale, le case-museo di artisti e scrittori o di famiglie notevoli.
C'è una sala dove non ci sono oggetti ma le pareti sono piene di fotografie di case tratte da vecchi album di famiglia. Si vedono gruppi di persone di fronte alla porta d'ingresso, o in giardino, d'estate intorno ai tavoli con le bibite, ci sono cani e gatti, i bambini giocano, si vedono gli orti, i campi, sembra tutto normale e tranquillo, perfino banale. Non sembra neppure un museo, visto che non ci sono collezioni né cose meravigliose. Le bacheche sono piene di lettere, documenti, disegni, carte, e tutto ciò che riguarda la storia delle case: ci sono rogiti, certificati di assicurazione, licenze edilizie, contratti d'affitto di case coloniche, cartoline inviate da amici e parenti in viaggio. Le didascalie spiegano di che case si tratta, costruite quando, quante generazioni ci hanno vissuto, che mestiere facevano i membri delle famiglie che le hanno abitate. Storie comuni, questo è ciò che appare.
C'è di tutto: cose brutte, vecchie, rotte, collezioni di riviste incomplete, vecchi quaderni di scuola appartenuti ai nipoti, ai genitori, ai figli, ai nonni, alle zie, ai cugini: del 1990, del 1965, del 1930, del 1910. Le Rime di Francesco Petrarca con l'interpretazione di Giacomo Leopardi. Fotografie, cartoline, agende con la spesa e con le visite mediche. Scatole di giochi da tavola, del piccolo chimico, del trenino elettrico. Quadri ad olio di scarso valore, ma che esprimono il gusto medio degli abitanti, o il loro desiderio di ricordare luoghi, paesaggi, persone. Oggetti usati: rasoi elettrici, mangianastri, mangiadischi, lucidatrici, aspirapolvere, reti da letto, materassi. Topolino, L'Espresso, Lo Specchio, Effe, Sipario, Il Corriere dei Piccoli, Linus. Registri di spettacoli teatrali visti, di film visti, di libri letti. Pacchi di lettere legate con lo spago, telegrammi di condoglianze, partecipazioni di nozze, libretti colonici, mobili tarlati, divani, buffet, controbuffet, tavoli, sedie impagliate, una toilette per signora, specchi, cornici, album di figurine dei calciatori, romanzi squinternati con le firme autografe sui frontespizi, atlanti geografici, carte nautiche, una fisarmonica, una batteria, una chitarra, vari fucili di diverso calibro, cartucce, attrezzi per fabbricare le cartucce, un letto da campo militare, pentole di rame, bollitori di latta per siringhe di vetro pluriuso, uno stetoscopio, uno sfigmomanometro.
Ogni casa racconta la vita che si conduceva: il contadino aveva il torchio per l'uva, le botticelle per il vino, gli attrezzi per distillare il mistrà, e ciò che serviva per le galline, il maiale, il vitello, e i cesti di vimini per la raccolta delle noci e delle pere. Ma nella casa padronale ci sono le lettere del figlio che è andato in città a studiare medicina e qualche anno dopo scrive le lettere con la carta intestata “Villa Anna, via Andrea Costa 71”, e più tardi manda le sue foto dall'Albania occupata. Si capisce che molte cose sono state lasciate a lungo nell'umidità tipica dell'abbandono, sono oggetti rovinati, pieni di macchie o addirittura marciti, da un momento all'altro sono passati dalla condizione di utilità quotidiana a quella di inutilità assoluta, e in quest'ultima hanno passato decenni: la madia, il tavolo da pranzo, la credenza con dentro le bottiglie di liquori cominciate, la coperta del letto su cui è piovuto, le ciabatte che i topi hanno smangiucchiato.
Si potrebbe credere che tutti questi oggetti accatastati infondano al visitatore una cupa tristezza. Ciò che invece sorprende è che portano ancora con sé e comunicano la profonda compassione che provavano i raccoglitori - Guido prima e Norma poi - per persone che quasi mai conoscevano ma che imparavano ad amare anche solo attraverso il racconto delle carte trovate; altre volte, con la mediazione dei parenti superstiti. Non c'è esibizione brutale in queste vetrine, né secca e cinica registrazione di tragici destini, anzi si viene presi con dolcezza dalle tracce ancora vive della solidarietà di Norma e Guido per quegli sconosciuti e dall'affetto quasi gioioso nei confronti delle cose superstiti con cui le hanno cercate e conservate, entusiasti di salvare la memoria della vita delle persone, delle famiglie, delle società, dei paesi interi. E negli oggetti si vede la gioia di sopravvivere ancora, di essere giunti fino a noi, di potere ancora parlarci, pur con una parte di mistero e un carico di fantastico che proviene dai loro mondi scomparsi.